www.dramma.it, 20 aprile 2012
Ultima settimana di spettacoli per il Wonderland Festival organizzato con ammirevole piglio costruttivo da un valoroso staff, guidato da Davide D’Antonio e Giovanni Zani, presso lo Spazio Teatro Idra nel bel centro storico di Brescia (www.residenzaidra.it/wonderland). Uno spazio che, nonostante le limitate dimensioni dei locali interni, è stato risistemato in maniera ottimale per contenere un centinaio di spettatori, offrire residenza creativa (o semplice alloggio) agli artisti ospiti e dare mirata accoglienza a un pubblico da interessare ai linguaggi della contemporaneità teatrale, virata “tra fiabe e nuove creatività”. Infatti, è dalla fine di gennaio che questa rassegna dà modo a diverse compagini, perlopiù di giovani, di esprimere il loro immaginario intorno a drammaturgie rivolte a una reinvenzione in termini di fiction fantastica e irregolare di quella stessa fiction tremenda e occlusiva che è diventata la nostra realtà. Nel caso in cui s’è imbattuto chi scrive, si è trattato di una nera distopia scenica intitolata VIRUS e interpretata dalla compagnia CapoTrave guidata da Luca Ricci.
Spettacolo del 2010 e tuttavia meritevole di essere recuperato in primis per le sue implicazioni tematiche (di cui dirò fra breve) e, in seconda battuta, in quanto tappa significativa di una storia che – giusto in questo periodo – vede il gruppo indiziato al centro di una felice frenesia produttiva. Recente, difatti, è il successo del primo studio condotto sulla pièce di Enda Walsh MISTERMAN alla rassegna romana Trend diretta da Rodolfo Di Giammarco; mentre ha appena visto il via l’anticipazione primaverile dell’ormai prestigioso festival Kilowatt, manifestazione che Ricci & Co. organizzano ogni estate a Sansepolcro (AR) dal 2003 e dove presenteranno l’anteprima della loro novità NEL BOSCO sabato 28 aprile. Concluso il preambolo, urge ora tornare a VIRUS. Ambientato nell’oscurità dominante di uno spazio contraddistinto da un paio d’architetture di tubi metallici in primo piano, ha per protagonisti due uomini – in tute da lavoro – relegati in un apocalittico underground dove finiscono manciate di ratti morti. Gli animali sono i pestiferi residui di un’epidemia esplosa nel mondo in superficie, nonostante le notizie diffuse da una radio parlino piuttosto di scenari d’ottimistico bengodi e bella vita. Quello che vediamo, però, è chiaramente in contrasto con quanto afferma tale invisibile “voce del padrone”, dall’alto di un apparecchio radio sovrastante significativamente la quarta parete. I topi iniziano a comparire un po’ dappertutto: per terra, allorché la luce di una torcia permette d’ispezionare parzialmente il buio della scena; nell’aria, in cui piombano giù da un tubo collegato con l’esterno; anche dentro un vassoio ricoperto in cui vi dovrebbe essere, semmai, un corroborante pasto. Pure il tappeto sonoro che sottostà all’intera vicenda promana atmosfere thriller e di suspense, frammentato com’è di rumori di passi, cambi di frequenza e campionamenti musicali. Nessuno è al sicuro: neanche la strana coppia riparata in un simile bunker (presumibilmente, in maniera coatta), dove appare addetta a raccogliere e a fare il computo di tale spazzatura, annotando delle cifre su un lavagna stante sul fondo e avente davanti una carrucola su cui scorrono di frequente dei pesanti sacchi. Diversa è la condotta dei due al cospetto di quanto accade. Uno sembra sbattersene delle operazioni di raccolta e calcolo, è piuttosto una sorta di scimmia in gabbia che talvolta s’inerpica sulle sbarre della sua struttura – sita a destra – e tende spesso agguati al suo vicino, aggredendolo, scrivendogli recisi messaggi, recapitandogli sorci e sputandogli in faccia umori virtualmente ammorbanti. L’altro ha un atteggiamento più riflessivo ma non meno apprensivo: osserva ed esamina, raccoglie e prende nota; si trova a doversi difendere e a rintuzzare i colpi del suo vicino; ogni tanto prova a scrivere parole d’amore a un’amata lontana su una piccola lavagna collocata dentro la propria impalcatura situata a sinistra. Parole scritte col gesso, soggette alla cancellazione e che durano fatica a comporsi e a protrarsi in un seguito. Perché è come se fossero divenute una materia fragile, di cui è andata perduta una parte considerevole di memoria, di senso e significato, unitamente a un certo uso. I due non parlano mai, del resto. Da loro provengono solo sospiri e ansiti, gridi attutiti durante le loro colluttazioni fisiche seminascoste nella densa penombra. L’atto stesso della scrittura intima sembra avvenga in virtù di un soprassalto interiore, figlio della disperata necessità di dare sfogo a una speranza che rimanga viva e aperta grazie proprio alle capacità di comunicazione ed espansione intersoggettiva insite nella parola scritta. Esclusi i pochi interventi della voce radiofonica, si è dunque in un contesto di complessiva deverbalizzazione che dà anche la cifra di uno smarrimento e di una struggente mancanza, ulteriormente rimarcati dall’assenza dell’elemento femminile. La donna è soltanto evocata per un attimo attraverso una proiezione video sulla piccola tabella dell’uomo che ha tentato di lasciare per iscritto la persistenza del suo non estinto sentimento. A sostanziare ciò è Pietro Naglieri, il quale sorveglia la propria gamma di emozioni sottopelle con misurata ansietà, compenetrandosi con il fosco dinamismo animalesco e minaccioso di Simone Faloppa. Entrambi opposte tensioni di una medesima intensità, in un gioco teso di chiaroscuri in cui manca proprio il soggetto davvero altro – l’autenticamente diverso – ad alterare, e quindi a scardinare, il vizioso circolare di questa accoppiata maschile votato a una cupa chiusura su di sé. E l’Altro, il Diverso di cui c’è assenza – resa palpabile, come detto, da un’evocazione di somma discrezione, visivamente sussurrata e allusa nella sua mancanza – è appunto la Donna. Ovverosia, simbolica figura depositaria dell’ancestrale mistero inerente la ricezione e la creazione di nuova vita umana; latrice e custode, perciò, di una dimensione dischiusa a un’esistenza futura tutta da crearsi nel colmo delle sue migliori potenzialità. Allora chi riesce a serbare nel proprio animo il pur debole, ma chiaro, riverbero di un simile orizzonte di feconda carica immaginativa e al contempo spirituale può ancora salvarsi, trovando vitale slancio verso una possibile via d’uscita da una condizione di oppressione. E questo grazie al pensiero dell’alterità. L’uomo delle lettere d’amore conquista così, in un pregnante ribaltamento di posizioni, il lato destro lasciato vuoto dall’antagonista e comincia a scalare l’impalcatura ascendendo verso il grosso tubo da cui piovono giù i ratti. Sporco di luce, è pronto ad attraversare il pernicioso condotto. Al di là forse c’è un mondo di morte e desolazione; al di là, tuttavia, si può affrontarlo scopertamente per riaffermare e ridare corso a rinnovate prospettive di liberata Vis esistenziale.
La Repubblica, 3 settembre 2011
Luca Ricci e Lucia Franchi sono gli artefici di “Kilowatt” il festival di Sansepolcro dedicato alla nuova scena e agli artisti under 30-40 selezionati dagli spettatori. E loro stessi sono artisti under 40 che si muovono nel teatro sperimentale e, lui più regista, lei più drammaturga, firmano insieme Virus. Siamo in un antro buio e sotterraneo, clima “post”, post-guerra, post-crisi, post-epidemia… in due rifugi di fortuna restano due uomini: uno cacciando topi e scavando tra le proprie memorie, l’altro sfogando i propri rancori. Tutto questo mentre dal mondo sovrastante arrivano rumori e rifiuti. Si apprezza il rigore estremo di un lavoro senza parole, fatto di gesti e atmosfere anche se, senza un Cormac McCarthy, è sterile l’idea del “sistema malato” che appesta.
L’Unità, 16 aprile 2011
Nel frizzante vivaio di talenti ed emergenti che è il teatro Furio Camillo di Roma, è furtivamente passato Virus. Posto giusto per un lavoro «sotterraneo» ma che varrebbe la pena recuperare in altre visioni (una replica è oggi a Sansepolcro nell’ambito di Kilowatt Spring e il 10 e 11 maggio al teatro della Bicchieraia di Arezzo). Nella sua oscura essenzialità, Virus è infatti uno spettacolo denso, da penetrare lentamente strato dopo strato, magari portandosi qualche retropensiero alla fine.
Il titolo rimanda a concetti di malattia e contagio e un’aria di sensibile malessere si forma tra le ombre di strutture metalliche. Scheletri di case fatte di tubi innocenti e mensole arrangiate, dove due creature inselvatichite si muovono quasi al buio. Sono residui umani (o quasi) confinati in uno scantinato asfittico, in cui gli unici segnali provenienti dall’esterno sono topi morti che cadono dall’alto e una radio balbuziente che gracchia notizie della città di sopra. I disperate omini della cantina si attrezzano come possono allo smistamento topi, a elencare minuziosamente su lavagne e a scrivere messaggi d’amore continuamente interrotti. Uomini e (o) topi, tornati indietro a una vita larvale, chiusi in un circolo ossessivo, come criceti in gabbia, mentre dalla città esterna arrivano notizie sempre più inquietanti di un’epidemia in corso. Si crea così, per addensamento di dettagli – parole interrotte, visioni lateriali e lacerate – il para-testo di Virus, cinematograficamente teatrale, a metà tra le penombre espressioniste di Murnau e le atmosfere di certi film americani di fantascienza plumbea degli anni Cinquanta. Nulla di ricercato: nell’ampio «ricettario» che gli autori – Luca Ricci e Lucia Franchi – prendono a riferimento del loro progetto, abbondano più i testi che le visioni.
È questo che rende l’amalgama di Virus un decantamento originale. Un’opera multistrato a cui la carnalità ferina di Emilio Vacca e Pietro Naglieri dà fiato e angoscia. Rilasciando un senso, quello sì davvero contagioso, di una cupa dissolvenza in cui stanno naufragando le nostre speranze.
www.carta.org, 12 aprile 2011
In un luogo perennemente in penombra, quando non in piena oscurità, fatto di ambienti delimitati da tubi e carrucole, si muovono due figure, presumibilmente due operai o due addetti alla manutenzione di questo inquietante sottosuolo in cui è ambientato «Virus», l’ultima produzione di Capotrave, di recente al Teatro Furio Camillo di Roma. Di colpo, con ritmi e suspence da thriller cinematografico, irrompe sulla scena il vero motivo della loro presenza in quell’ambiente claustrofobico: cadaveri di topi. Sono loro, presumibilmente, la fonte dell’improvvisa epidemia che ha colpito la città in superficie, sulla quale le autorità tendono a minimizzare per bocca di uno speaker radiofonico la cui voce, disturbata da un segnale poco ricevibile in quell’ambiente sotterraneo, gracchia comunicati ufficiali e note di previsione sull’ottima stagione turistica in arrivo. Racconto «solare» in aperto contrasto con la scena soffocante di Virus, la voce disturbata della radio è anche l’unica voce di uno spettacolo muto, e suo tappeto sonoro costante [come accadeva nel film «Una giornata particolare» di Ettore Scola]. I due operai, o forse disinfestatori – Pietro Naglieri e Simone Faloppa, sostituito nelle repliche romane da Emilio Vacca – si trovano invischiati in una situazione senza uscita alla quale uno dei due si abbandona, mentre l’altro cerca disperatamente di lottare per mantenere una lucidità e una non contaminazione che sembrano ormai impossibili.
Una costante del teatro di Capotrave è il tentativo di attualizzare racconti classici elevandoli a paradigma, trasformandoli in metafora. Nel precedente «Robinsonade», ad esempio, un Crusoe contemporaneo si ritrovava a vivere su un’isola di rifiuti. Con «Virus» il regista Luca Ricci cerca di affrescare una versione odierna de «La Peste» di Albert Camus, romanzo definito «dell’assurdo» che tuttavia è portatore di una delle visioni più lucide dei rapporti tra gli uomini che la letteratura europea abbia partorito dal secondo dopoguerra in poi. Ha ragione Ricci – che assieme alla co-ideatrice Lucia Franchi costella lo spettacolo di citazioni – a pensare che la potenza metaforica della sua eco calzi perfettamente al presente. «Virus», tuttavia, ne opera una selezione drastica, mostrandoci esclusivamente il sottosuolo in una serie di colpi di scena dal sapore cinematografico, orchestrati da una regia e da una scenografia che pescano a piene mani dall’immaginario di molto teatro visivo: ambienti cuboidali, torce elettriche, proiezioni vintage, tappeti radiofonici. L’atmosfera che si crea fa pensare a certi classici contemporanei dell’horror fantascientifico, come «28 giorni dopo» del regista inglese Danny Boyle.
Pur ben curato nella realizzazione, «Virus», più che un distillato dell’opera di Camus, ne è una sua diluizione. Ne «La peste» ciò che colpisce sono le reazioni degli abitanti di Orano, il loro ancorarsi a valori che di colpo non hanno più corso, il loro cinismo e le loro meschinità, ma anche il coraggio dei protagonisti – un coraggio esangue, di chi sente la necessità di compiere il proprio dovere, lontano sideralmente da quello degli eroi hollywoodiani. Questo vortice di relazioni, che rende «La Peste» una pietra miliare della letteratura mondiale, porta il suo autore a scrivere con tutta convinzione la frase più politica e profetica del libro: «La sola maniera di lottare contro la peste è l’onestà».
In «Virus», invece, la città è totalmente assente. Ce ne giunge appena l’eco radiofonica dei suoi governati [la voce è di Marco Fumarola, vox della scena romana che ha già prestato il suo timbro caldo a Lucia Calamaro in «Tumore» e di recente a Fabio Massimo Franceschelli in «Penombra del primo mattino»]. Ma la sua umanità è espulsa dalla scena, possiamo solo tentare di immaginarcela, come fa – in modo per altro fallimentare – il personaggio di Naglieri quando cerca di scrivere alla compagna, da cui è separato dagli eventi. Sembra quasi che quella umanità non sia presente nell’immaginario di Ricci, e probabilmente non è un caso: il modello di umanità di fronte alla catastrofe, per la generazione del regista toscano, non è più quella solidale che portò ad esempio un’ondata di volontari a partire per la Firenze alluvionata del 1966; è semmai quella dolente di New Orleans, dove nella tragedia ci fu chi approfittò della confusione per compiere stupri e rapine. Come dire che, più che ragionare sugli anticorpi come fa Camus, per Ricci – analogamente a molto teatro apocalittico degli ultimi tempi – preferisce soffermarsi sul virus che è già dentro di noi.
www.teatroteatro.it, 11 aprile 2011
Di complessa e multiforme lettura è questo spettacolo, Virus, sulla malattia e sul contagio che avvolgono un intero sistema. Che sia un corpo o una società non importa. Ciò che importa vedere è la carica virale con cui tutto diventa oscuro e impalpabile. Le stesse note di regia, redatte da Luca Ricci, vogliono sottolineare la componente politica e sociale di un disagio che colpisce in maniera critica l’intero sistema a cui apparteniamo.
Eppure in questo spettacolo ritengo ci sia molto di più. Componenti inespresse di un bisogno di rinascita, umori liquidi e informi di qualcosa che, pur nella sua piena decomposizione, sono Vita. Il concetto stesso di malattia del resto è un concetto piuttosto vago e pretenzioso. Non è forse, il Virus, un prodotto della competizione tra le specie? Il Virus, pensato come un’orma, è simile al marchio posto sulla fronte di Caino, una questione di sangue in definitiva. Una traccia rossa che segna il punto di rottura finale, e al contempo iniziale, di un sistema.
Lucia Franchi e Luca Ricci, ideatori e autori di Virus, organizzano l’intera pièce operando secondo uno schema detrattivo, che tende a evidenziare una assoluta mancanza di umana pietas tra i personaggi. Paradossalmente proprio la sottrazione di elementi umani sembra collocare tutta l’idea scenica su un piano immanente e metafisico. Il buio come rinascita, la malattia come fertilizzante, il silenzio come attesa. Tutte le interazioni drammaturgiche sulla scena sono prive infatti della componente dialogica, come pure è assente qualsiasi sottolineatura da parte delle luci (a esclusione delle torce che i personaggi usano per vivere la scena). La scena stessa del resto, divisa tra gabbie in cui sviluppare plasticamente il tremore virale che invade i corpi dei due protagonisti, si trasforma in un enorme antro sotterraneo, i cui confini non è dato conoscere, un utero malato al cui interno alimentare le poche tracce di umanità rimaste, attraverso un tubo posto sopra la scena, metafora ombelicale e primigenia di un diritto alla vita che è sempre di origine materna. In questo breve e intenso spettacolo sembrano plasmarsi le origini stesse di una antropogonia che ricongiungerebbe l’Uomo, attraverso la malattia e dunque la morte, alla terra che è sempre rinascita. Il veleno che il serpente araldico Uroburo inietta su se stesso, dando così vita alla morte e morte alla vita sembra incarnarsi di fronte agli spettatori attraverso le spire ritorte dei corpi di Emilio Vacca e Pietro Naglieri, uniche tracce autenticamente vive di un istinto di sopravvivenza che tende verso l’alto, verso quel cordone ombelicale che è per tutte le specie il punto di contatto con la Vita.
www.klpteatro.it, 2 ottobre 2010
Sicuramente una delle più grandi paure della nostra società è quella di ammalarsi e di morire; per questo, ogni anno dai mass media arriva notizia di presunte “epidemie” che colpiscono alcune persone in paesi asiatici o africani, dove le condizioni igieniche scarseggiano, che suscitano il panico nella popolazione mondiale, con grande gioia delle aziende farmaceutiche.
Dalla Sars all’aviaria, la paura di morire per un male incurabile butta nella psicosi le persone, anche se spesso si tratta di paure in realtà immotivate.
E di “Virus” – il nuovo spettacolo di Luca Ricci e Lucia Franchi, prodotto da quel piccolo gioiellino di festival che è Kilowatt a Sansepolcro – si indaga tramite un’azione performativa: le dinamiche della degradazione delle condizioni che portano al propagarsi di un’epidemia.
Sulla scena due attori, con due gabbiotti come casa, sono immersi in un clima sotterraneo, sporco, dove si propaga la scarsa igiene e dove i topi proliferano, scaricati nell’ambiente da un enorme tubo.
È una storia di paura, ma anche di minaccia, quella di “Virus”: lo spettro di un’epidemia, sempre più concreta, che attanaglia l’uomo ed è scandita dalla voce di uno speaker radiofonico che, inesorabilmente, aggiorna lo spargersi dell’epidemia.
La relazione tra i due uomini è quasi assente, fatta di tentativi di suicidio e interrelazioni mute, dove lo sguardo e il gesto raccontano meglio di cento parole personaggi apocalittici rinchiusi in uno scantinato che è un po’ anche il simbolo del paese in cui viviamo, che piano piano si sta consumando a causa di un’epidemia.
Se gli spunti sono interessanti, la realizzazione non può dirsi però del tutto azzeccata: lo spettacolo è composto da una serie ininterrotta di suggestioni visive, splendidamente realizzate, che tuttavia rimangono a se stanti, causando una perdita di attenzione e di ritmo e una mancanza di coesione tra una scena e l’altra. Rimane l’ottima prova dei performer Simone Faloppa e Pietro Naglieri, che riescono a ben tratteggiare la solitudine e la disperazione degli uomini, intrappolati in questo micro/macrocosmo che è uno scantinato ma anche il mondo.
www.klpteatro.it, 25 luglio 2010
La serata d’inaugurazione di Kilowatt 2010 è dedicata alle prime nazionali, le tre produzioni del festival, quelle che questo fuoco ardente di voglia (e bisogno) di fare ha deciso di infiammare con un sostegno non solo economico ma di sostanza, di attenzione, di partecipazione. Nel festival “del pubblico” tutto comincia in quella che, costruita in pieno Medioevo, fu la chiesa di Santa Chiara. (…)
Capotrave è la compagnia-anfitrione. Luca Ricci ha preparato il suo “Virus” – secondo spettacolo della serata – come si fa in laboratorio, andando dritto per una strada radicale che per certi versi ha davvero poco a che fare con il teatro. Sceglie però, per dimostrare il risultato del suo esperimento, una location non adatta, che impedisce agli spettatori di godere appieno dello spettacolo, causa visuale limitata. Allora chi era seduto oltre metà sala non avrà avuto modo di seguire i movimenti nervosi e frenetici di Pietro Naglieri e Simone Faloppa, personaggi senza nome e senza parola che si inseguono in un sottosuolo infestato di topi. Io ho avuto la fortuna di assistere allo spettacolo in una sede più consona, il che mi permette ora di dire come sia interessante la scelta estrema di Lucia Franchi e Luca Ricci di usare solo torce per descrivere un’epidemia che sta divorando la città di chissà quale prossimo futuro.
La struttura di tubi innocenti funge alla perfezione da scenario apocalittico, in cui il sottosuolo è l’unico mondo ancora al sicuro. Un mondo buio, minaccioso, ultimo. In “Virus” c’è azione, romanticismo, letteratura, visione, invenzione e forza performativa. Peccato che il risultato resti comunque chiuso in quello scantinato buio. Vediamo bene lo spettro della metafora, che inquadra i personaggi nella rappresentazione di un mondo in caduta libera, pone i topi e l’epidemia come simbolo di un epilogo di orrore e riassume in sguardi disperati e tentativi di suicidio l’unica relazione tra individualità. (…)
La Repubblica, 24 luglio 2010
Che il teatro per sopravvivere debba continuare a rinnovarsi e che il pallino del cambiamento spetti di diritto alle nuove generazioni lo si sa da un pezzo e vale pure, anzi più che mai, in tempo di crisi. Ne è una bella riprova il Kilowatt Festival, la geniale manifestazione inventata otto anni fa da Luca Ricci a Sansepolcro, una rigorosa festa della fantasia, come conferma l’inizio di quest’anno con tre novità di 50 minuti in ciascuna delle quali si confrontano due personaggi. (…)
In Virus di CapoTrave , pseudonimo dietro il quale si acquatta il tuttofare Luca Ricci, a misurarsi tra loro, dietro uno sfondo di lavagne e di camere oscure, sono dei singoli su cui grava un destino da maledetti. (…)
www.paneacqua.eu, 23 luglio 2010
Grande qualità nella serata inaugurale del Festival di Sansepolcro, in cui gli spettacoli sono scelti da una commissione di cittadini appassionati, ma non esperti, e in cui la stampa e la critica sono i veri spettatori di scelte quest’anno veramente di ispirata qualità
Se la società, il tempo, il disgregare del sentimento identitario collettivo non trovano modo di accogliere l’arte come forma di elaborazione del vissuto, l’esperimento che il Festival Kilowatt propone a Sansepolcro ha in sé un’innata e rivoluzionaria modernità, che va a cercare le sensibilità casa per casa, a stanare il cittadino perché abbia un ruolo attivo nel processo di scelta, affinché non si senta distratto e indolente spettatore, ma artefice di una offerta culturale, dell’architettura di pensiero che marca e marchia il suo territorio.
Un festival in cui questi cittadini, raggruppati sotto l’etichetta di “Visionari” vedono trailer di spettacoli per tutto un anno, ne scelgono alcuni, e alla fine ne discutono con esperti, critici e appassionati in una settimana di passione e coinvolgimento.
É questa la ricetta del festival che anche quest’anno rinnova in questi giorni la sua offerta, con un programma che propone tre spettacoli a sera, di durata massima di un’ora, ma di grande qualità formale, almeno stando a quanto abbiamo avuto modo di apprezzare nella serata di esordio. (…)
Il secondo spettacolo della serata è Virus, della compagnia Capotrave diretta da Luca Ricci, che porta in scena una drammaturgia à-la-Frank Miller, un incubo metropolitano di portata potentemente cinematografica. In una città devastata dal diffondersi di un terribile virus, due uomini, abitanti di un under world nero e claustrofobico, cercano di sopravvivere, in un inspiegabile e inspiegato rapporto fra loro. Con un modo di narrare veloce, assai ben interpretato da Pietro Naglieri e Simone Faloppa, il destino catastrofico della comunità viene vissuto dal didentro, un interiore che comunica con il mondo attraverso un bocchettone dal quale però arriva la condanna stessa. La scelta del pubblico disposto sullo stesso piano dell’azione, costringe lo spettatore a vivere la condizione dei due prigionieri del mondo degli incubi, e quindi nettamente preferibile alla scalinata all’italiana anche dal punto di vista della posizione concettuale di coinvolgimento rispetto a quello che sta vedendo, e al suo svolgersi emotivo. Occorre trovare però un escamotage tecnico per permettere la fruizione del visus scenico anche alle fine disposte più indietro. Il lavoro è di grande compattezza formale, la regia quasi cinematografica, e il risultato moderno e non banale, con un finale che forse induce una nota di didascalismo supplementare, che potrebbe invece omettersi in ossequio ad una maggiore cripticità dei ruoli. (…)
www.teatroecritica.net, 23 luglio 2010
Ho lasciato Roma con la teatralità dirompente di Antonio Rezza e l’ennesimo Pitecus, egoisticamente usato come placebo alla tristezza che la città eterna si porta con sé. Ho lasciato Roma dalla Stazione Temini, dove il marketing corre sui pattini e i barboni dormono su via Giolitti, in terra mentre i turisti velocemente passano loro accanto.
Da Roma con un paio di colleghi siamo partiti per la Valtiberina, in tre ore la E45 ci ha portato a Sansepolcro, all’ingresso del centro cittadino il manifesto del festival campeggia con il suo salvagente…si salvi chi fa. (…)
Per la seconda proposta della serata passiamo dal chiostro, dove all’incirca 140 persone avevano occupato tutti i posti disponibili, ad una sala chiusa dove per motivi logistici Luca Ricci e Lucia Franchi rischiano di sacrificare il loro ultimo lavoro, Virus, rendendolo semi-invisibile, causa l’assenza di una platea rialzata, a metà del pubblico. Ed è un peccato perché chi come me ha avuto la possibilità di vederlo in un altro contesto non può non aver recepito il clima angosciante creato da Capotrave, l’atmosfera da fine del modo schizzata in scene buie con un’estetica di primi piani fumettistici per raccontare di due uomini (interpretati Simone Faloppa e Pietro Naglieri) costretti in un underworld a raccogliere topi, ognuno che combatte a modo suo contro il virus, scrivendo lettere mai spedite al proprio amore, contando gli animali infetti o tentando il suicidio. (…)