Piccola Patria

in PAC – paneacquaculture.net, 30 aprile 2022

Piccola Patria è l’ultimo dei 13 spettacoli creati e prodotti da CapoTrave, il sodalizio formato da Lucia Franchi e Luca Ricci, cui da anni si deve la direzione artistica del Festival Kilowatt, meritoria avventura di sperimentazione delle arti sceniche, pioneristica nello sviluppo e nelle proposte di audience engagement in Italia ma anche in Europa. La creazione arriva a Bologna nella stagione di Fuori, Casa di Teatri di Vita: che come tutte le produzioni dell’ultimo biennio (ha debuttato nel 2019) ha potuto circuitare con moderazione per via delle limitazioni note. Come accade anche in altre drammaturgie del duo creativo, una cornice ambientale connotata da una vicenda peculiare, diventa poi il pretesto per far esplodere contraddizioni più intime e centrate sui rapporti interpersonali, sicuramente il particolare interesse artistico del duo autorale. Qui lo scenario è un referendum con cui gli abitanti di una cittadina di provincia, San Verdiano, dovranno decidere la secessione dall’Italia, per uno di quegli assurdi accadimenti che affondano le radici nel medioevo, dove il confine di questo o quel comune venne tracciato per errore, lasciando indeterminate terre di mezzo. Divertente come viene ricostruita la pretestuosa vicenda per bocca del precisissimo (fino al bordo del maniacale) presidente di seggio Corrado (interpretato da Simone Faloppa) e da sua sorella (Gioia Salvatori).

Gli accadimenti si dispongono su un orizzonte di tre giorni: il sabato di preparazione dei seggi, la domenica del voto e il lunedì, in cui della votazione si conosce l’esito. Lo sviluppo temporale della vicenda è lineare: nella finzione scenica le giornate sono intervallate da brevi intermezzi di solo movimento e musica cui danno vita gli attori in scena. Lo spettacolo si apre con il duo fratello-sorella che inizia ad allestire il seggio. Il rapporto non è idilliaco: lui, ingiacchettato e formale, determinatissimo, con un piglio da aspirante governatorello di paese, lei svagata e dimessa, seppur vestita con una appariscente camicia rossa, rivelano da subito un malassortito rapporto ancillare in cui la donna è figura che subisce il modo e il mondo di decisioni del fratello politicante. Sembrano un datore di lavoro e la sua segretaria servile.
Lei, lo si capisce via via, è emigrata in una qualche lontana isola prossima ai tropici pur di non dover respirare le asfissie della provincia, e pare trovarsi al seggio quasi per errore. Presto si aggiunge la figura del terzo incomodo, interpretato da Gabriele Paolocà, evidentemente esterno alle relazioni della coppia fraterna, ma non estraneo. E come si potrebbe esserlo in paese, d’altronde? In una piccola comunità anche chi si estranea non è estraneo. Anzi, la scelta di non condivisione, anarchica in qualche forma, diventa pretesto per l’immediato conflitto che si rivela fra questa figura dissidente e il politico in giacchetta. L’ultimo arrivato nella dinamica di relazione triangolare è subito antagonista del primo, ma ben presto rivela una prossimità con la donna che seppur mai esplicitata in modo chiaro, sottintende antiche vicinanze, una complicità condivisa. Si tratta, si capisce, di cose passate, che affondano in fatti di un decennio precedente. Erano giovani, idealisti: anche allora il fratello secessionista era in fissa con la storia del referendum, ma all’ultimo il voto era saltato per quello che parve chiaramente un attentato incendiario ai seggi, che provocò una vittima il giorno prima della consultazione.
Ne parla Corrado in un’intervista televisiva concessa a un giornalista locale e che gli altri due guardano in video dal seggio con la LIM presente nello spazio scolastico sede del voto. Ma proprio quando il fratello intervistato rievoca le vicende del decennio precedente, la donna si affretta a spegnere il filmato, turbatissima. È qui che si capisce che i due rimasti al seggio erano in qualche modo coinvolti nella questione politica che portò poi all’attacco incendiario, prendendo poi strade diverse. Lui dopo i fatti resta a San Verdiano, nella scomoda e mai integrata posizione dell’oppositore di paese, lei va via, prova a farsi un’altra vita.

Il pubblico non è in platea ma si dispone su file di sedute che si fronteggiano per il senso della lunghezza rispetto all’area agita dagli attori, delimitando lo spazio per il lungo. Le scene e i costumi semplici di Alessandra Muschella, con due praticabili a delimitare i lati corti dell’ambiente e un grande tavolo con tre sedie per i protagonisti si aggiunge – nel complesso dei segni – al disegno luci di Pierfrancesco Pisani che nella sostanza segue le scelte registiche: semplice e senza inutili trovate a turbare l’incedere drammaturgico, affidato alla parola recitata, con qualche enfasi negli intermezzi di movimento fra le giornate e in occasione del climax finale, in cui si risolve il conflitto incrociato. Il gioco dei non detti, man mano che la drammaturgia evolve, ingloba compiutamente anche la figura melliflua della sorella, come protagonista silenziosa ma non esterna alle questioni alla base dei rapporti complessi fra i due uomini.

Il gruppo di lavoro che ruota intorno alla compagnia CapoTrave, fondata da Mirco Ferrara, Enzo Fontana, Lucia Franchi e Luca Ricci e attiva ormai da quasi vent’anni, e in particolare il trio di interpreti, è assai rodato: chi recita gioca con precisione a raccontare i personaggi, caratterizzandoli con gesti e movenze che hanno a che fare con la realtà del possibile umano, sconfinando di tanto in tanto in qualche esasperato tic o mania che ne precisa l’indole. È il caso dell’ossessivo ordine nel disporre gli oggetti del presidente di seggio, degli eccessi di reazione e di manifestazione della propria diversità dell’anarchico di paese, della presunta (ancorché impossibile e marcata dal rosso del vestito) volontà di invisibilità di lei.
Alla fine il vero gioco di cui lo spettacolo racconta, più che il pretesto secessionista, è la complicità famigliare, che arriverà fino in fondo, fino alle estreme conseguenze, pur nella diversità abissale fra le due figure fraterne, fra un lui deciso e ambizioso e una lei che, pur senza mostrarsene in grado, è artefice di gesti capaci di indirizzare, di orientare.

Il vincolo familistico imporrà le sue ragioni sui tentativi del mondo esterno di interferire in un ordine prestabilito e ormai immutabile, in cui i due con lo stesso cognome si coprono, definiscono un’opportunistica ragione di quieto vivere, volta a non complicare l’evolvere inesorabile dei fatti. A farne le spese il mondo degli ideali, i poveri illusi che credono nei grandi cambiamenti, nelle rivoluzioni, e che finiscono qui un po’ enfaticamente in lacrime. L’enfasi di gesti cui la regia ricorre nel finale, talvolta anche un po’ fuori dallo strettamente giustificabile, connota la chiusa di un lavoro che, per il resto, scorre molto agevolmente, “acchiappando” lo spettatore. Il testo di Franchi e Ricci è ben scritto, ben interpretato, e le puntiformi scelte registiche “eccessive” di Ricci sono volte in realtà a spezzare la dinamica del recitato che avrebbe altrimenti rischiato di apparire un po’ schiacciato su gesti e parola. Piccola Patria si fa guardare per tutta l’ora della recita con piacevolezza. Come detto, l’abilità della creazione sta nell’aver saputo organizzare drammaturgicamente in modo organico due meccaniche: quella grande e sociale, che sembra in apparenza protagonista, ma che diventa poi asservita alla seconda, a quella micro-relazionale che ospita il conflitto fra i tre, con una lucida e dimessa Lady Macbeth di paese, capace di far pendere la bilancia ora di qua, ora di là, pur senza averne l’apparente incarnato. E si sa, l’assassino al cinema è spesso quello che non ti aspetti.

in La Repubblica, 2 marzo 2020

La compagnia CapoTrave di Luca Ricci e Lucia Franchi, responsabile a Sansepolcro del Kilowatt Festival, coltiva una drammaturgia di innesti di paradossi politici in immaginarie piccole amministrazioni italiane. Dopo “La lotta al terrore” che associava eversione a sonnolenta provincia, ora gli autori Ricci-Franchi hanno fatto conoscere all’Argot Studio un sociale e anche familiare spaccato di controversie che, in occasione d’un referendum sull’autonomia di una piccola cittadina dal quadro unitario del Paese, possono sorgere alla vigilia del voto, il giorno dell’andata alle urne, e il giorno dopo la consultazione.
Nella nostra epoca di ballottaggi, di elezioni regionali, di incombenti pareri referendari e di istanze local-indipendentistiche, l’odierna “Piccola patria”, con regia di Luca Ricci, è l’unica impresa teatrale, direi guardandomi intorno, che mette a segno uno studio dei retroscena, una satira dei fenomeni e un’indagine delle false apparenze riguardanti una microdemocrazia per espianto, un’autodeterminazione localistica. Non conta tanto, qui, l’ispirazione (vera) dalla Repubblica di Cospaia che tra Toscana e Umbria visse a sé stante tra il 1440 e 1826, mentre conta la spinta a un nuovo autoisolazionismo d’adesso, che però costringe i tre protagonisti, tre scrutatori di seggio (fratello e sorella, e vecchio amico di lei), a fare i conti con propri atteggiamenti, errori fatali e coperture risalenti a dieci anni prima, quando un analogo referendum fallì per una scuola-seggio andata a fuoco con una vittima. C’è, tra gli oppositori all’autonomia, chi è stato ritenuto allora colpevole, chi lo fu davvero per strategia dannosa, e chi, favorevole all’anacronistica enclave, gioca carte false. Non si salva nessuno. Gabriele Paolocà, Gioia Salvatori e Simone Faloppa maneggiano bene le schede, i ruoli, le responsabilità di queste anatre zoppe del politichese.

infomessina.it, 30 luglio 2021

Eccezionalmente disposto ai lati più lunghi del tavolo d’un seggio elettorale, in un’Area Iris oltremodo idonea all’inconsueto assetto, il pubblico del Cortile Teatro Festival ha assistito ieri (in replica stasera) alla pièce “Piccola patria” della compagnia toscana CapoTrave.
Traendo ispirazione dalla vicenda che riguardò la Repubblica di Cospaia, indipendente dal 1440 al 1826 per un errore di tracciamento dei confini, Lucia Franchi e Luca Ricci imbastiscono una trama che parte sì da una questione politica affine, ma presto vira verso il dramma squisitamente umano di cui l’individualismo, secessionista per natura, è responsabile.
Il testo è ben costruito e i dialoghi incalzanti ai quali si affida, in crescendo, lo sviluppo della trama innestano quella relazione tra i personaggi che ne determina il corto circuito sul fronte emotivo. Si predilige la ricostruzione realistica in modo che la situazione sia percepita come vera, si materializzano gli elementi drammatici e si assegna allo spettatore una visuale che molto dipende dai movimenti degli attori per dilatare l’orizzonte del reale. Intanto i protagonisti si integrano con il luogo che li accoglie e li anima, parole e azioni ne delineano i contorni caratteriali e li rendono distinguibili, oltreché veritieri, così che gradatamente ci si appresti a quella conoscenza del singolo che svela sempre, seppure a grandi linee, la complessità della natura umana sulla quale s’erge molto teatro.
La regia di Luca Ricci percorre l’itinerario tracciato dalla drammaturgia ben amalgamando tutti gli elementi che concorrono a scovare prima e a sfoderare poi il senso profondo della rappresentazione. E al globale equilibrio dell’impianto scenico, frutto anch’esso di ponderate scelte registiche, vi si aggiunga l’interessante disegno luci di Pierfrancesco Pisani, a scandire il tempo col digradarsi della luminosità, a giocare sull’avvilente quadretto di vita che costituisce il motore dello spettacolo.
Caterina (Gioia Salvatori), Corrado (Simone Faloppa) e Lorenzo (Gabriele Paolocà) sono tre piccole patrie costrette dentro il medesimo perimetro per tre giorni, il tempo che si svolga il referendum per l’autonomia di San Verdiano, una minuscola e scarsamente popolata Mesopotamia del nostro tempo.
Caterina e Corrado sono fratelli. L’una, rifugiatasi su un’isola islamica, dondola a San Verdiano tra i ricordi dell’infanzia e la rimozione di spaccati temporali che, nella vaghezza delle allusioni, si preannunciano comunque essenziali ai fini della vicenda. Corrado, tra i due fiumi che ne segnano i confini, ha all’opposto racchiuso tutto il suo mondo: lo sguardo su ciò che l’orizzonte estromette è alquanto miope. Il temperamento, nel relazionarsi alla sorella, è prevaricatore; le si rivolge ogni volta, con tono fastidiosamente e paternalisticamente saccente, chiamandola per nome, come a volerle ammonire.
L’ingresso di Lorenzo nel seggio elettorale, quando già la tensione si taglia col coltello, assesta il colpo di grazia agli equilibri precari delle relazioni. Lorenzo è diametralmente opposto a Corrado, eppure come lui è rimasto su quel fazzoletto di terra per il quale nutre considerevole disgusto.
Coopera a tratteggiare le forme dei tre individui, spia delle peculiarità caratteriali, la scelta dei costumi operata da Alessandra Muschella, cui si ascrivono anche le scene. Dai particolari delle scarpe, alle giacche, ai colori degli indumenti si confeziona il tridente delle personalità dissimili sul quale si gioca la partita concepita a livello testuale.
Intanto avvampa per la seconda volta quell’incendio che, dieci anni prima e alla vigilia del referendum revocato, distrusse la scuola. E ora è una combustione sul piano meramente emotivo, tra un panino con la porchetta e un bicchiere di vino, tra il non detto e il rigurgito delle coscienze. Anime, lì, sempre sul punto di traboccare. Fiumi che il tempo non ha prosciugato e che, sul limitare dell’indipendenza o della resa o della fuga, si abbandonano all’ultimo colpo di coda.
Sempre in contatto tra loro, a sostenere ininterrottamente la dimensione collettiva dello spettacolo pur seguendo itinerari molto personali nell’elaborazione del personaggio, gli attori hanno selezionato, ciascuno per sé e nella valorizzazione delle specificità espressive, i giusti colori emotivi degli individui sulla scena. Una coerenza ineccepibile nell’organizzare l’interpretazione, nel rendere proficui i silenzi e nell’occupare centimetri che non paressero mai casuali. La tensione scenica voluta registicamente, il passaggio graduale dalla contingenza per aprire le danze sulla carneficina emotiva, sono frutto in “Piccola patria” della più felice mistura che possa ascriversi a uno spettacolo teatrale: la drammaturgia traducibile scenicamente, la creatività del regista che si insinua tra le pieghe della scrittura e il lavoro interpretativo, egregio in tal caso, degli attori.
Intanto Caterina, Corrado e Lorenzo svelano gli aspetti meno servibili del sé a lungo segregato. Cade l’ultimo velo dell’ipocrisia. Politica e politicamente corretto definitivamente assolti. Ciascun personaggio sceglie, alla fine, la strada che più si confà alla propria natura. Così che, nel ribaltamento delle già posticce alleanze, si prediliga finzione o disperazione. Con tanto di vincitori e vinti, ciascuno accovacciato sull’io che, à la guerre comme à la guerre, distrugge l’altro con disinvolta noncuranza.

spettacolinews.it, 8 novembre 2019

Conoscete la Repubblica di Cospaia? Non la conoscete? E’ un piccolo stato che ci tiene alla sua indipendenza. Ce lo raccontano con Piccola Patria, ora alla sala La Cavallerizza del Teatro Litta Mtm a Milano. È una enclave nata per un erroredi tracciamento dei confini da parte dei geografi della Repubblica di Firenze e dello Stato Pontificio.
Ora siamo alla vigilia del referendum che dovrebbe confermare l’indipendenza. Corrado (Simone Faloppa) è convinto che si potranno fare grandi cose, la sorella Caterina (Gioia Salvatori) è appena tornata dopo essersene andata molto lontano, su un’isola, quando 10 anni prima, la notte precedente il referendum, la scuola che ospitava il seggio era bruciata con tutte le schede, impedendo di fatto la consultazione. Ed era morto Federico. Incendio doloso, si era detto subito: chi aveva appiccato il fuoco? A 10 anni di distanza il mistero è ancora fitto. A questo punto per gli spettatori è chiaro che il giallo prende il sopravvento e, soprattutto, il tema diventa il senso di responsabilità, la capacità di affrontarla e di affrontare il giudizio e conta anche il senso di solidarietà. Insieme, l’interrogativo è: che cosa si è pronti a fare per contrastare una idea che non si condivide? Si può anche andare oltre il lecito, rischiando la vita degli altri? Se l’interrogativo diventa questo, allora siamo nei paraggi degli avvenimenti di oggi, con le manifestazioni anche violente in Catalogna pro indipendenza.
La risposta al giallo? E’ tutta da scoprire durante la pièce, insieme ai rapporti tra i protagonisti, ai quali si è aggiunto Lorenzo (Gabriele Paolocà), un tempo fidanzato di Caterina.
A coinvolgere ancor più gli spettatori è la messinscena. Perché la duttilità della sala della Cavallerizza permette una estrema vicinanza tra attori e pubblico. Che qui è tutto intorno a un lungo tavolo posto al centro. Ci sono le schede elettorali, che vengono firmate e timbrate durante lo spettacolo, l’urna, le cabine, uno schermo. A quest’ultimo è affidato il compito di far conoscere la posizione ideologica di Corrado grazie a una intervista.
Se qualche interrogativo riguarda anche il testo, veloce, ma forse anche troppo – perché, ad esempio, non ci viene letto il quesito referendario che è invece chiaramente scritto? -, resta però l’interesse per i tanti interrogativi sollevati e di grande rilievo. Ma non è certo una pièce di sole parole, perché di azione ce n’è tanta. E piace sempre la estrema vicinanza attori-spettatori che acuisce il coinvolgimento del pubblico, ma anche degli attori, che in qualche momento sono sembrati loro stessi emozionati.
Per chi è ancora fermo al primo interrogativo ricordiamo che la Repubblica di Cospaia è rimasta realmente del tutto indipendente dal 1441 al 1826 con motto “Perpetua et firma libertas” (Perpetua e sicura libertà): la pièce Piccola Patria non è la sua storia – anche se molte indicazioni corrispondono -, ma a questa è ispirata raccontando di un piccolo stato indipendente e anche questo piace molto.

sipario.it, 13 novembre 2019

Un seggio elettorale è la costruzione scenica avanguardistica (il pubblico siede sui due lati della sala) in cui si dipana la storia scritta a quattro mani da Lucia Franchi e Luca Ricci, ispirata a fatti realmente accaduti. Un luogo, non specificato, è sede di spinte politiche di stampo autonomista che trovano riscontro in molti dei suoi abitanti. Un referendum è indetto per promuovere o bocciare le voglie di indipendenza. Tre personaggi (interpretati da Simone Faloppa, Gabriele Paolocà e Gioia Salvatori) si incontrano al seggio. Un ragazzo, sua sorella e l’ex amante di questa. Il primo è favorevole all’indipendenza, gli altri due no. Proprio loro due che sono stati artefici, tempo prima in occasione dello stesso referendum, di un incendio a una scuola, in cui un ragazzo perse la vita. Per i tre protagonisti il seggio diventa, così, non solo il luogo di un confronto politico ma anche quello, nel caso dei due colpevoli, della confessione e della liberazione dai sensi di colpa. Quando la pièce sembra andare in questa direzione, il finale rimescola le carte in gioco. La Famiglia vince sulla Politica, i legami di sangue “fanno fuori” la coscienza morale e civica. La Piccola Patria si riduce ancora di più. Non è più soltanto metafora politica di chi preferisce chiudersi territorialmente contro ogni possibile apertura verso l’esterno ma anche, nella forma più estrema, metafora esistenziale e biologica della Famiglia che si “nutre” del singolo individuo. Siamo a un passo dalla legge della giungla. Da lì c’è spazio solo per homo homini lupus. È questa la conclusione spiazzante e interessante di uno spettacolo che affronta una tematica attuale inerente la politica, per chiudersi con la problematica importante, sociologica, del rapporto fra gruppo e individuo. Forse troppa “roba” per un’ora di durata. Ma rimane una ricchezza di contenuti importante. Torniamo a casa con quelle riflessioni, stimolate dalla storia che i due autori ci hanno offerto, senza esprimerci, sulle questioni affrontate, con un giudizio conclusivo e definitivo.

persinsala.it, 19 agosto 2019

Con Piccola Patria di Capotrave si scava sotto l’apparenza della politica. È davvero questa la politica oggi? Ed è quella che vogliamo per il futuro?
Patria: territorio, cuore, identificazione. Sicurezza, confine, identità, differenza. Dentro e fuori. Dentro=sicuro v/ fuori=pericoloso. Dicotomie a cui siamo avvezzi.
Ma cosa significa patria? Si legge in Treccani: “il territorio abitato da un popolo e al quale ciascuno dei suoi componenti sente di appartenere per nascita, lingua, cultura, storia e tradizioni”.
Quando la patria è piccola cambiano le dinamiche? Gli interessi in gioco sono a loro volta più “piccoli”? Questa Piccola Patria è specchio della Grande. Per il suo personaggio fondamentale, il futuro presidente, modellato su un tipico rappresentante della destra – negli atteggiamenti, nelle pseudo argomentazioni e anche nella mimica. Per il modo in cui riflette l’atmosfera politica dell’Italia di oggi, non solo nel contenuto dei discorsi, ma soprattutto nello stile, nel tono. Uno Stato di provincia in cui il concetto di bene pubblico semplicemente non si pone. Concetto scolastico, ricordo lontano solo di qualche testo di filosofia, di storia o addirittura letterario, ma assente nel mondo di oggi – miscuglio ormai inestricabile di mediatico e reale, privato e pubblico, anche nella stessa tempra morale dei suoi protagonisti.
Questa Piccola Patria è la terra dove l’ego si dibatte e cerca la vittoria, dove le idee assurde che solo dieci anni prima sarebbero sembrate uno scherzo diventano concrete e vincenti, dove le dinamiche personali, familiari e private si mescolano e turbano il vivere comune (e in cui le tragedie non servono a diventare più maturi e coscienti di sé, ma solo a nascondersi meglio). È la patria “delle fratture” in un domino dove, caduta una tessera, inizia a crollare anche il resto. Almeno finché la menzogna non viene a tamponare il danno. Dove non c’è ideale ma solo un reale da tenere sotto controllo e da trattenere sotto la superficie ben curata delle proprie convinzioni, di ciò che si vuole credere di sé e far credere agli altri.
Nella costruzione drammaturgica lo spettacolo si ispira a una storia vera, quella di Cospaia, piccolo centro fra Umbria e Toscana che, dal 1440 al 1826, per un errore nel tracciamento dei confini fu Repubblica indipendente. Dal punto di vista strutturale, è un treno che corre, una macchina narrativa che tiene avvinto il pubblico. Dove il lato politico è il mare in cui è immersa la storia (un mare che può essere più o meno percepito, a seconda della diversa sensibilità di ognuno e delle proprie vicende personali) e in cui le fratture del vissuto privato sono anche quelle delle vicende politiche. Quindi, se da un lato l’immedesimazione è molto forte, dall’altro la storia personale (elemento trainante della macchina narrativa) inquina quel poco di ideale che avrebbe potuto esserci. Tutto ciò è evidente nel personaggio dell’antagonista, Lorenzo, un non più giovane ribelle di sinistra: nel momento in cui ammette di essersi finalmente sentito potente anche lui – quando ai suoi tempi si era accorto di aver fatto ridere Caterina, e di averla in qualche modo conquistata – la sua posizione, le sue idee, la sua battaglia perdono ogni valore, lasciando solo una persona desiderosa di riscatto personale e fatalmente sconfitta.
Colpisce, però, come un pugno quello schiaffo finale alla verità: ecco in scena il senso della democrazia (il male minore per Popper) in quel due-contro-uno che basta a nascondere la verità, quel “banale” gioco di forza in cui non vince chi ha le idee migliori (anche se ci fossero) ma solo la maggioranza, una maggioranza che mente a se stessa e al mondo.

teatro.it, 8 novembre 2019

C’è molta politica nella pièce Piccola patria, soprattutto la politica più attuale, legata alle correnti di pensiero che vedono come valore preminente la chiusura a tutto ciò che è diverso, e per questo percepito come estraneo o addirittura ostile e pericoloso. Il discorso politico, però, è qui più ampio e profondo, non si risolve in una semplice strizzata d’occhi all’oggi, semmai manifesta un richiamo al senso di responsabilità di ciascuno di noi, inteso come cellula portante della società. Compito non facile, in un mondo in cui l’irrazionalità e le reazioni emotive sembrano aver preso il posto del dialogo e del confronto civile.

Più che un referendum
Lo spunto dello spettacolo affonda le sue radici nel lontano XV secolo. Nel 1440, infatti, in seguito a un errore nel tracciare i confini tra Stato Pontificio e Repubblica di Firenze, un piccolo territorio fra Toscana e Umbria – la Repubblica di Cospaia – proclamò la propria indipendenza, che mantenne fino al 1826. E proprio attorno a un referendum per l’autonomia dall’Italia, indetto nella cittadina non meglio specificata di San Verdiano, ruotano le vicende dei tre personaggi dell’opera: il promotore del referendum stesso, Corrado, la sorella Caterina e il suo ex compagno, Lorenzo. La tensione che si respira fin dall’inizio sulla scena sembra soprattutto legata a questioni ideologiche: da un lato Corrado, l’assertore dell’indipendenza e della separazione dal resto del paese; dall’altro Lorenzo e Caterina, che al contrario disprezzano il piccolo universo di tradizioni e consuetudini di San Verdiano. Ma c’è molto altro: emerge infatti una vicenda tragica (l’incendio della scuola che dieci anni prima avrebbe dovuto ospitare il referendum e che provocò una vittima) che riguarda i tre protagonisti, in un crescendo noir che conduce allo spezzarsi traumatico di legami sentimentali e familiari. Gli obblighi morali e le responsabilità civili di ciascuno si infrangeranno contro gli egoismi personali, che prenderanno il sopravvento in un finale di estrema drammaticità.

Nel cuore della scena
La scena riproduce l’interno di un seggio elettorale: su un lungo tavolo sono posate l’urna e le schede per il referendum che i protagonisti – in qualità di presidente e scrutatori – dovranno siglare e piegare. Ma è il contesto a rendere l’insieme molto coinvolgente: l’ambiente ristretto della Sala della Cavallerizza “costringe” infatti gli attori a recitare a strettissimo contatto con gli spettatori, una vicinanza che rende molto elevato il tasso di partecipazione emotiva, che cresce sempre di più fino all’esplosivo finale, quando appare chiaro che la frattura più grave non sarà quella che separerà San Verdiano dal resto del paese ma quella che dividerà per sempre, tra non detto e ipocrisie, i tre personaggi.

Inquietanti interrogativi
Si è detto della particolare ambientazione dell’opera. Le prove degli attori ne appaiono avvantaggiate: Simone Faloppa è convincente e mellifluo nello squadernare le sue convinzioni politiche e, al tempo stesso, la sua piccineria morale; Gabriele Paolocà e Gioia Salvatori mettono in scena un complesso rapporto che, tra personale e politico, porta a uno strappo tanto doloroso quanto irreparabile. Uno spettacolo impegnativo e adulto, che semina inquietanti interrogativi sulla nostra coscienza pubblica e privata.