www.rumorscena.com, 22 aprile 2014
PISA – Ispirato dalle straordinarie atmosfere oniriche dell’opera Il Galateo in bosco, poema di Andrea Zanzotto uno dei poeti maggiori del secondo Novecento, questo delicato lavoro di Luca Ricci coglie del capolavoro zanzottiano gli aspetti più magici: le atmosfere rarefatte del bosco, della foresta, richiamano alla fitta e simbolica complessa trama dell’inconscio con tutti i rimandi antropologici e letterari che solo un poeta di quella straordinaria levatura ha saputo tradurre in versi, una summa filosofica di molteplici sapienze.
In un paradiso terrestre, un Eden più notturno che diurno o forse al confine fra la notte ed il giorno, o crepuscolo dove al limite del buio-luce le schiere sonore degli uccellini amplificano il canto: ecco la favola di Adamo ed Eva, ecco il lavoro di Luca Ricci con la sua compagnia Capotrave. Due giovani che si incontrano, per caso, al limite del dentro e del fuori che è la realtà interiore con tutto il carico di attese, sogni, desideri. E’ la ragazza a rappresentare il pensiero, non il sesso. Sta seduta con un libro mentre lui, per primo in scena è il più fisico, selvatico. Corre, scalcia le foglie- è l’autunno, la stagione della caccia. L’incontro avverrà, sarà dolce anche se la caduta corrisponde all’incursione dei cacciatori, colla muta dei cani invertendo l’ordine simbolico vita-morte, canto delle creature-spari. La fine dell’innocenza? La cacciata dal paradiso terrestre, quella che comporta il passaggio necessario ma dolorosissimo, il varco della linea d’ombra.
Pochi ma essenziali ed emblematici i versi tratti dal poema zanzottiano a tentare di tracciare un percorso narrativo al susseguirsi del plot. Magistralmente letti come voce fuori campo dall’attore più significativo della sua generazione, il poliedrico sensibile rabdomantico costiano Roberto Herlitzka.
Da elogiare il lavoro sulle luci e sul sonoro, in una difficile prova: scena fissa su una ricerca che si pervade della più astratta e forse, antiteatrale, delle arti, la poesia ( in compagnia anche della musica), una ricerca coraggiosa quella perpetrata da Luca Ricci insieme al suo gruppo di lavoro dove la strategia è quella di confrontarsi coll’abisso delle contaminazioni plurilinguistiche che l’arte complessa del teatro può permettersi ma a proprio rischio e pericolo.
Ma in questo la giovane compagnia Capotrave ha già ampiamente dimostrato possedere, per mantenere la metafora della caccia, parecchie frecce al proprio arco.
www.ilpickwick.it, 28 novembre 2013
Risuona poetica la parola. Tangibile ed eterea a un tempo, trovando asilo e ricetto in un tòpos poetico quale il bosco, la parola – e l’ossimoro, che la parola alla parola accosta per antinomia – s’evoca diafana. Sullo sfondo d’un buio fitto che pian piano si dissipa, un letto di foglie ai piedi di quattro alberi s’incornicia a radura; scorre un tempo scandito dai ritmi della natura: il cinguettio degli uccelli segnala ch’è giorno, il frinire dei grilli che la sera è calata.
Un velo separa scena e platea, diaframma sottile e concreto, quarta parete tangibile che dichiara in partenza la propria funzione scenotecnica; su questo velo di tulle scorreranno didascalie in riverbero, versi in trasparenza: ecco le parole, tangibili ed eteree, cui si accennava dianzi; Il Galateo in bosco di Andrea Zanzotto la fonte poetica, la voce recitante di Roberto Herlitzka a sonora scansione.
Su questo quadro di scena agiscono due giovani figure, un ragazzo e una ragazza, che appaiono sospinti in questa dimensione silvestre da forze oscure, un ragazzo e una ragazza che verso un oscuro procedere sembrano volgersi, facendo esperienza della naturalità delle loro pulsioni; prende corpo sulla scena la dimensione poetica dello stato di natura, accolta in uno spazio altamente simbolico ed evocativo di mistero e scoperta.
Mistero e scoperta di cui due anime faranno esperienza attraverso i rispettivi corpi, che agiranno con la spontaneità dei cicli biologici della natura; la luce che albeggia li sorprenderà avvolti in viluppo di sensi, dopo essersi annusati, scrutati, rincorsi e alfine trovati. Due anime raminghe per la selva s’incontrano fuggiasche e fanno connubio; dimensione arcadica e altra al contempo, che parte dalla primordialità della natura per arrivare a scandagliare i precordi dell’umano, rappresentati sulla scena da due giovani acerbi che s’affacciano all’esperienza della vita, in bilico sulla linea di confine, fra mistero e conoscenza, fra paura e desiderio. Una gestualità semplice ne scandisce i rapporti, una liturgia poetica complessa ne celebra la messinscena.
Questo è, in una sintesi che non potrà aver pretesa di renderne giustizia, Nel bosco di Lucia Franchi e Luca Ricci; una forma teatrale che coniuga poesia e scenotecnica in un equilibrio delicato e armonico; un gioco di rifrazioni visive e sonore, in cui le parole accarezzano l’udito e le pupille, mentre i corpi, muti, parlano coi battiti delle loro pulsioni, coi ritmi delle emozioni, forti ancorché solo accennate, che ne segnano l’agire. C’è qualcosa di perennemente oscuro che aleggia: i due attori sembrano braccati da qualcosa o da qualcuno (le paure ancestrali che albergano nella selva dell’umano sentire?), il loro vagare che pare trovare requie e asilo nello spazio accogliente della radura, su un letto di foglie e sotto un cielo di stelle, è percosso da una minaccia che non li abbandona e che li manterrà in bilico fino alla fine, sospesi in un finale aperto, in cui è sfumata in dissolvenza – come dissolvono le parole sul velatino mentre la voce di Herlitzka le spande nell’etere – l’antinomia vita/morte, lasciata come possibilità da interpretare, come soglia su cui permanere, come interrogativo non necessariamente da soddisfare.
Nel bosco colpisce e cattura per l’originale delicatezza dello sguardo, per la freschezza e la semplicità con cui articola qualcosa di complesso. Barbaglio di luce nella selva oscura (dimensione poetica per antonomasia), Nel bosco coniuga teatro e poesia, visione e parola.
Il bosco, terra di confine circonfusa da un’aura magica, luogo poetico che trasforma, da cui si esce cambiati. Come il bosco, il teatro, luogo di esperienza poetica che trasforma, circonfuso anch’esso della propria speciale magia, spazio cui s’affidano parola e gesto affinché lascino un segno, una traccia.
Un segno, una traccia che si son lasciati seguire nel bosco, fino al buio che precede l’applauso.
www.liminateatri.it, 11 febbraio 2013
Entro nella Sala Grande del Teatro dell’Orologio di Roma e mi ritrovo immersa da subito in un’atmosfera magica. Un insistente ululato di cani randagi risuona nel buio della sala, mentre dietro un sottile velo trasparente poco a poco fa la sua apparizione l’ambiente primordiale, sotterraneo, caotico ed oscuro del bosco. Le belle scene di Katia Titolo centrano alla perfezione l’idea della selva imprevedibile espressa dalla scrittura poetica di Andrea Zanzotto alla cui opera, Il Galateo in Bosco , si ispira lo spettacolo diretto da Luca Ricci. Quattro alberi posizionati ai vertici di un immaginario trapezio si stagliano di fronte alla platea. Un manto di foglie secche ricopre lo spazio scenico in cui agiscono i due giovani (ma bravissimi) interpreti Roberto Gudese e Alessia Pellegrino.
I loro corpi, sostenuti da una energia gestuale ed espressiva dirompente, giocano a rincorrersi, inseguirsi, incontrarsi, scoprirsi, amarsi in un luogo – il bosco appunto – dove tutto può accadere e dove l’esperienza e l’esistenza coincidono con inevitabili riti di passaggio. Luca Ricci e Lucia Franchi costruiscono un impianto drammaturgico che coglie con forza e con rigore l’essenza della raccolta di versi del poeta veneto: il bosco è la matrice, il principio generativo dell’essere, il suo grado zero ed è per questo che anche il linguaggio verbale risulta superfluo rispetto al fluttuare della natura circostante. Gli attori protagonisti non si dicono una parola. Dialogano fra loro scambiandosi sguardi, carezze, abbracci. La lingua non è più un codice convenzionale riconosciuto, proprio come nell’opera di Zanzotto. Essa è piuttosto un sistema magnetico di segni, di suoni, di voci, di parole proiettate sul pannello velato ai quali gli autori dello spettacolo affidano la comunicazione e la partecipazione condivisa tra i protagonisti e tra questi ultimi e gli spettatori. Non esiste l’univocità del dialogo, frammentato, scomposto e disseminato nello spazio.
Sostantivi, aggettivi, verbi, brevi frasi appaiono e scompaiono dentro la straordinaria architettura dei veloci fotogrammi iscritti sul pannello o risuonano nella voce fuori campo di Roberto Herlitzka. Lo spettatore è invitato a fare il proprio viaggio. A immergersi e a perdersi nell’oscurità di un non-luogo che porta inevitabilmente altrove. Sta a lui accettare di superare la soglia del cambiamento. Sta a lui disporsi ad accogliere dentro di sé quel profumo pungente di sughero e di foglie bagnate. Sta a lui lasciarsi travolgere dai ritmi sonori ideati da Fabrizio Spera e a “guardare la vita all’altezza dei fili d’erba”.
www.teatroecritica.net, 8 febbraio 2013
Già nel precedente Virus la compagnia CapoTrave diretta da Luca Ricci rifletteva sulla possibilità di raccontare un’intera vicenda affidandosi interamente alla componente visiva e al ritmo che la organizza, mettendo lo spettatore in rapporto frontale con il sudicio sotterraneo di una ipotetica metropoli: tra cunicoli infestati di topi e celle di contenimento due uomini si contendevano la cattività, mentre in superficie un’epidemia decimava il mondo. E di quel mondo Ricci lasciava intendere solo la presenza incombente, attraverso il salmodiare graffiante dei bollettini medici, il cigolio dei tombini e il gocciolare delle fogne: ma il gioco al massacro, il vero dramma si spendeva tutto nella pasta densa del buio, in quel sotterraneo squarciato da fasci di torce elettriche, senza spendere una parola.
Anche Nel Bosco, andato in scena al Teatro dell’Orologio di Roma, agiscono due corpi, un ragazzo e una ragazza al limite della pubertà, in fuga da colpi di fucile e latrati di cani. La scena iperrealista di Katia Titolo ricostruisce una piccola radura delimitata da quattro alberi, lascia il commento sonoro allo scricchiolio delle foglie morte in terra, delle quali si sente addirittura il profumo. La sorprendente umidità della sala – che in altre occasioni ci aveva strappato imprecazioni – sembra qui arrivare a chiudere il cerchio di un’ambientazione a suo modo perfetta, incorniciata con rigore e inventiva ormai consueti dalle luci sepolcrali di Gianni Staropoli.
Fugge uno, fugge l’altra e quel bosco gelido eppure accogliente diventa per entrambi un’oasi di resistenza ultima; tra fronde e corteccia si consuma un incontro morbido, riposato, coraggiosamente condotto dalla regia su continui giochi di prossimità, sugli sguardi della distanza, sui brividi che tramutano il freddo atmosferico in un’incertezza ancora bambina. Il rito iniziatico che porta all’età adulta rivive nei corpi acerbi, nella scoperta del sesso, in quei sorrisi sempre a metà, mettendo in luce il riuscito lavoro sui due interpreti, giovanissimi e pure agili abitanti di questo ambiente così liminare, che – come avviene in certo teatro di oggi – cerca con il pubblico un contatto basato sulla lontananza.
Tra lo spettatore e la meticolosa scena «immersiva» si interpone infatti un velatino su cui gli ottimi effetti video di Andrea Giansanti fanno comparire e scomparire brani del poema Il galateo in bosco di Andrea Zanzotto, che la voce di Roberto Herlitzka declama con inflessione funebre e fatale. È qui che qualcosa del dispositivo si inceppa. Le parole alate e a volte troppo criptiche di Zanzotto, il cui poema nasconde gli echi di guerra in guizzi lirici fortemente sincopati, non riescono a imporsi sulla partitura fisica che invece respira di una vita ipnotica e forse basterebbe a se stessa.
Estremamente reale non è tanto la scenografia – un bosco in scena è dichiaratamente finto – ma la relazione tra i corpi (ché di personaggi non si può parlare). La frizione si crea tra la carnalità dell’azione e i giochi linguistico-fonetici dei versi la cui esplosione visiva e soprattutto declamazione finisce per rompere l’incanto.
L’Unità, 8 febbraio 2013
Senza parole, o meglio, senza pronunciare parole dal vivo. Solo lettere, frasi, versi stampati su un sottile strato di velo che separa il pubblico dalla platea e recitati dalla voce registrata di Roberto Herlitzka. Per il resto accade tutto e non accade niente Nel Bosco, titolo del nuovo spettacolo della compagnia CapoTrave andato in scena nei giorni scorsi al Teatro dell’Orologio di Roma.
Luca Ricci – che ha curato la regia dell’allestimento e che dirige ogni anno il Kilowatt Festival a Sansepolcro, dove ha debuttato l’estate scorsa lo spettacolo – ha senz’altro creato un quadro vivente d’impatto. Un bosco autunnale, pieno di foglie, che ospita i sospiri e la paura di due giovanissimi amanti, interpretati da Roberto Gudese e Alessia Pellegrino. I loro corpi si muovono in un ambiente sonoro e visivo molto cinematografico che ti stordisce a affascina.
Un bel quadro, dunque, che suscita sensazioni piacevoli. Firmano la drammaturgia Lucia Franchi e Luca Ricci: la storia, se c’è, è quella che cerca di costruire ciascuno spettatore, magari immaginandola a partire dalle soluzioni luministiche suggerite da Gianni Staropoli e sonore di Fabrizio Spera, che creano uno spazio tridimensionale dove le parole e le scritte si materializzano su quel sottile strato di velo. Le parole che vediamo e ascoltiamo sono quelle del poema Il Galateo in bosco (1978) del poeta veneto Andrea Zanzotto. Di quest’opera Eugenio Montale scrisse: “E’ tanta la sfiducia di Zanzotto nella parola che la sua poesia si risolve in un tuffo in quella pre-espressione che precede il discorso articolato. E’ un poema percussivo, questo, ma non rumoroso: il suo metronomo è forse il batticuore”. Come dargli torto dopo aver visto lo spettacolo di CapoTrave?
La poesia di Zanzotto cerca in questo spettacolo una relazione con il bel bosco fiabesco, dove i due giovani si cercano, si trovano, crescono insieme, affrontano una scena di caccia e poi spariscono. Effimeri e rapidi, come nella scena di un film. Resta il ricordo di un’immagine bucolica nella quale lo spettatore ha “annusato” certi odori in compagnia dei due giovani attori.
www.cheteatrochefa-roma.blogautore.repubblica.it, 2 febbraio 2013
“Nel Bosco” di Luca Ricci ci sono foglie cadute da alberi rugosi e parole soffiate su pareti invisibili da una voce, quella inconfondibile, fuori campo, di Roberto Herlitzka, che riscalda quel vuoto di nuda fragilità con una malinconia trepida. Che ha il colore della memoria e il sapore di un’intimità trattenuta in una dimensione possibile. Dove rifugiarsi da una minaccia invisibile di spari e grida, dove nascondersi dall’intrusione di una realtà castrante, dove ritrovarsi insieme a misurare senza paura la solitudine dell’altro. Con silenzi condivisi, sguardi catturati, avvicinamenti studiati da un’adolescenza (quella dei due giovani protagonisti, Roberto Gudese e Alessia Pellegrino), che prova ad essere adulta, al riparo di una radura amniotica, mescolando gesti infantili alla curiosità giocosa di due corpi muti, in trasformazione. A danzare la dolcezza di un rito che si nutre di carezze impronunciabili, di risa inaspettate, di schianti rimandati a una violenza da calpestare col batticuore. E con fisicità di acerba bellezza che si abbandonano all’emozione scoperta di un nuovo amore, cieco di suoni ma avido di buio e di esclusività. Alimentato dalla natura e da un immaginario che ha nella poesia di Andrea Zanzotto il correlato oggettivo di un altrove che ha senso solo se si rimane dentro, abbracciati in un non luogo, in un non essere, in un non detto, che al di fuori non troverebbe di certo spazio per (r)esistere. Uno spettacolo di ricercata essenzialità, di visiva accuratezza (grazie alla scenografia e alle azzeccate scelte scenotecniche), di bilanciata malia. Un viaggio onirico in un’opportunità che il teatro spesso dimentica di avere: la semplicità.
www.rumorscena.it, 7 ottobre 2011
Quante volte abbiamo pensato alla paura di perderci nel bosco, incapaci di ritrovare la strada per uscirne, o sognarlo come un luogo oscuro, popolato da misteriose creature. Fin da bambini, le fiabe ci raccontavano di foreste cupe, buie, misteriose, in cui regnano forze oscure. Un luogo di iniziazione per eccellenza è da sempre il bosco, riconducibile a un archetipo originatosi ai tempi della cultura greca antica. Un rito universale, dove una giovane vita deve superare la prova per raggiungere la maturità, ed essere considerato poi uomo adulto. La valenza simbolica del bosco come uno spazio ostile, irto di ostacoli, metafora di un altro spazio più oscuro e sconosciuto, qual è inconscio umano. Il bosco è l’impedimento per proseguire nella propria vita, alla ricerca della felicità e della realizzazione dei propri desideri.
Nella realtà i boschi sono divenuto nel corso dei secoli, il luogo ideale dove l’uomo ha nascosto altri esseri umani, li ha rapiti, abbandonati, sepolti. Eppure il suo fascino è indubbio. Chi non vorrebbe entrarci, anche solo per curiosità? Come hanno fatto un ragazzo e una ragazza finiti “Nel bosco” portato in scena dalla Compagnia CapoTrave agli “Alveari”, il “luogo che meglio caratterizza l’anima del festival Contemporanea” di Prato, dove gli artisti si sono potuti cimentare in progetti creativi sperimentali, liberi di poterlo fare, senza vincoli di carattere distributivo. “Nel bosco” (un primo studio in divenire) il terreno era cosparso di foglie secche (vere) che scricchiolavano sinistramente e saturavano l’aria di polvere, creando così la sensazione di viverlo realmente quel paesaggio soffocante. Lui è in fuga, inseguito da una “minaccia concreta e mortale”, circondato da alberi spogli, simili a strane figure scheletriche. Lei entra deliberatamente in questo spazio dove la luce deve faticare per infilarsi tra un groviglio di rami, braccia senza vita, ragnatela di legni induriti dal trascorrere del tempo secolare. La giovane donna è alla ricerca di una sua indipendenza, di una identità. Sono entrambi attirati dal quel vortice apparentemente senza vita. Il silenzio è rotto solo dai passi che avanzano, escono due figure umane dall’ombra oscura, da un nero denso di attese. Quali saranno? C’è apprensione e provocazione. Lui si spinge oltre, provoca la sua estemporanea partner, lei è spaurita e intimidita. Sono due poli opposti che si attraggono e si respingono. Un approccio seduttivo che diventa un rituale, un gioco, una lotta per la supremazia, nel tentativo di comunicare. Il contatto fisico sembra trovare tra i due un punto di fusione, l’inizio di una conoscenza. Non sarà così: il bosco li dividerà di nuovo. Ma in quel bosco c’è un’atmosfera strana, su cui incombe una presenza inquietante. Quando apparirà?
Il lavoro di Luca Ricci punta su una drammaturgia per immagini, simile a fotogrammi di un film, dove lo sguardo dello spettatore è attirato dal “non visto”, dal “non ancora accaduto”. C’è quell’attesa spasmodica che non trova sfogo. La ricerca del regista, affiancato da Lucia Franchi e da Roberto Gudese e Alessia Pellegrino, alla loro prima esperienza (una presenza scenica promettente), segue la faticosa e fragile crescita di due adolescenti che si incamminano verso un traguardo chiamato “età adulta”, da dove sarà impossibile tornare indietro. Forse era meglio restare in quel bosco…
Lun – Ven : 9:30 – 18:30