Hystrio, gennaio 2014
È un viaggio al confine tra bene e male, convinzione e ossessione. In un attimo puoi scivolare dall’altra parte e perderti. Come accade a Thomas Magill in Misterman di Enda Walsh, che la Compagnia CapoTrave mette in scena nella versione trasformata in un monologo dallo stesso autore. Il giovane “toccato” da Dio, che osserva e giudica i suoi concittadini di Inishfree, annotandone i cattivi comportamenti su un quaderno nero, vuole essere strumento di Dio, un crociato che porta purezza e amore dove c’è corruzione, anche se non ci lascia nemmeno intuire “come” intenda farlo. Basta infatti un cane che abbaia troppo insistentemente, un “no” di colei che era apparsa a Thomas come un angelo dalle ali luminose, per far scattare l’interruttore che separa la luce dalle tenebre trasformando un uomo in assassino. C’è una partitura sonora ad accompagnare l’assolo di Alessandro Roja in questo potente testo a cui Luca Ricci sottrae tutto il naturalismo possibile, per concentrare l’azione nello spazio chiuso della mente di Thomas, dove vediamo intessersi anche le sue relazioni. Gli altri personaggi vengono infatti solo evocati dalle sue imitazioni e dalla loro voce registrata su un magnetofono (e sono tra le altre le voci di Daria Deflorian, Veronica Cruciani) che ossessivamente Thomas aziona, novello Krapp. I suoni riproducono ambienti, situazioni, dialoghi che sembrano già vissuti e dei quali, forse, egli cerca un senso, nella reiterazione continua. Ma il confine tra la sua realtà mentale e quella oggettiva è labile e sempre sfumato. E lo spettacolo lascia più domande che risposte. Perché nessuno si è accorto di nulla? Qualcuno poteva fare qualcosa per lui? Alessandro Roja, formazione ed esperienza cinematografiche, si lascia guidare dal personaggio, dandogli sfumature di intensa espressività, senza nulla togliere all’ambigua miscela di pietà e orrore che è la sua verità profonda. Rinchiude gli spettatori nello spazio angusto in cui si nasconde Thomas, che facilmente si sovrappone a quello oscuro della sua mente, fino all’epilogo in cui al pubblico chiede di identificarsi con gli innocenti e colpevoli cittadini di Inishfree.
www.teatroteatro.org, 13 novembre 2013
Storico successo del drammaturgo irlandese Enda Walsh, tradotto per la prima volta in italiano, il monologo è costruito come il racconto corale di una giornata nel villaggio di Inishfree, nell’irlanda rurale. Thomas Magill è “Misterman”, ossessionato dal Verbo divino e dalla malvagità dei suoi concittadini, che ritiene di poter redimere uno ad uno.
Ragazzo strano, Tommy, la cui mente terribilmente innocente prenderà una deviazione tragicamente folle. La vicenda non è lineare e la ricostruzione dei fatti è ambigua, filtrata dal suo sguardo, ritratta attraverso brandelli di racconti sgangherati o riprodotta da frammenti registrati. La storia si rivela in effetti l’excursus delle sue sensazioni. “Tutto cominciò con un rumore…” Siamo al buio, il luogo è la mente di Thomas, dove i suoni arrivano alterati e le immagini distorte; attraverso i suoi occhi lo spettatore acquisisce la percezione del contesto, corrotto e malvagio. E se fino ad un certo punto la sua lettura del mondo è convincente, il personaggio lo è sempre meno e man mano che ne seguiamo il girovagare le visioni proiettate dalla sua mente assumono i chiari contorni della follia.
Un testo complesso, sorretto da una scrittura cruda e impietosa, che non mira a blandire i sentimenti ma a mostrare il logico percorso di un’escalation di follia all’interno di una mente nella quale realtà e immaginazione sono profondamente intrecciate. Alessandro Roja è un interprete generoso, che penetra l’ambiguità del personaggio e ne sa riprodurre in modo credibile gli scarti, le sospensioni e le crisi devastanti. Investendo molte energie ma riuscendo a dosarle senza mai eccedere.
Thomas è il prodotto sofferente di una società decisamente malata, che non ha compassione per chi è diverso né clemenza per chi è più debole. E’ una vittima designata ed è proprio per questo che diventerà carnefice. Si erge a strumento di Dio avendo investito sé stesso di quest’alta missione, ma a prendere il sopravvento sarà una reazione assolutamente umana alla quotidiana umiliazione: l’insuperabile disagio esistenziale dei deboli in una società priva di pietas. L’allestimento scarno è il corretto contorno di uno spettacolo che vale assolutamente la pena vedere.
www.cheteatrochefa-roma.blogautore.repubblica.it, 11 novembre 2013
Nello stanzone buio, qualche sparuta presenza: un tavolaccio da cucina rovinato, sedie logore, un vestito buono penzolante in un angolo. Thomas è lì ad aspettare, l’oscurità che gli è intorno ne vela la fisionomia di docile trentenne rassegnato a vivere con la madre, tra le angherie di una comunità che lo vessa di continuo, i ricordi di un padre violento e i fantasmi di un passato che non ci è dato conoscere. E’ solo in questa desolazione, eppure le voci di Inishfree, il piccolo villaggio rurale dell’Irlanda in cui vive, entrano senza scampo tra le pareti rovinate del suo interno familiare, assordandone i pensieri con implacabile invadenza. Due registratori lasciati in scena, uno su un palo spostato a spalla, come una croce, e l’altro adagiato sul tavolo, sono la cassa di risonanza di un fuori che contagia con la sua marcia interferenza. Cani che abbaiano, macchine che sfrecciano veloci, vicini ficcanaso e coetanei crudeli, in un dialogo serrato tra io e mondo destinato a esplodere nella sua ossessiva reiterazione.
“Misterman” di Enda Walsh, nella regia di Luca Ricci, è una prigione di parole per il suo labile protagonista, un convincente e intenso Alessandro Roja, che nell’arco di ventiquattrore converte la sua pura innocenza in furia vendicatrice. Il dolore è la molla che lo fa scattare, l’incapacità di sostenerlo in alcune sue dinamiche sociali, l’innesco di una trasformazione che nella fede trova una pronta giustificazione. Col suo viso pulito e l’intonazione limpida, Roja entra nelle vite dei vari personaggi del suo dramma, instaurando una dinamica tra voce viva e riprodotta (Daria Deflorian è la madre possessiva) che aliena nella sua coazione a ripetersi. Uno spettacolo che affascina, come certe atmosfere di Gus Van Sant, per il sospetto dell’orrore prima del suo compiersi, anche se non riesce a incidere, fino in fondo, diluendo invece che serrando la tensione quando il racconto si fa spietato. Perché in un giorno di ordinaria follia, tutto può succedere.
L’Unità, 8 novembre 2013
Se è vero che il primo amore non si scorda mai ecco spiegato perché gli attori della fortunata serie televisiva Romanzo Criminale ce li troviamo sempre più spesso sui palcoscenici dei nostri teatri. Vi abbiamo già parlato di Francesco Montanari (Il pigiama, Romeo e Giulietta, Parole Incatenate con Claudia Pandolfi)e Vinicio Marchioni (Un tram che si chiama desiderio); ora tocca, invece, ad Alessandro Roja (il Dandi della fiction) che fino a domenica sarà al teatro dell’Orologio di Roma con Misterman dell’irlandese Enda Walsh (regia di Luca Ricci).
(la parte centrale della recensione prosegue parlando dello spettacolo “Lo sfascio” di Gianni Clementi, con Riccardo De Filippis, altro attore di “Romanzo Criminale – La Serie” ndr)
In Misterman – di Enda Walsh, finora mai rappresentato in Italia e in questo caso tradotto da Lucia Franchi – l’innocenza si trasforma in follia, passando per luoghi oscuri (fisici e mentali)dove il confine tra realtà e immaginazione è molto labile. La regia di Luca Ricci si focalizza sui dialoghi tra Thomas Magill e le voci registrate che fuoriescono dai vecchi nastri magnetici (apprezzabile il tentativo di Alessandro Roja di mettersi alla prova, entrando e uscendo da un personaggio all’altro). In scena rivivono così gli incontri avuti da Thomas con gli abitanti del villaggio irlandese di Inishfree e attimo dopo attimo, attraverso lo sguardo sempre più straniante e ossessivo del protagonista, esplode tutto il marciume che silenziosamente si è fatto strada. Un testo interessante.
La Repubblica – Milano, 1 novembre 2013
Un attore (Alessandro Roja) con molta voglia di mettersi alla prova, un regista (Luca Ricci)capace di leggere un testo, un autore (l’irlandese Enda Walsh)che sa raccontare le devastazione del nostro tempo con micidiale lucidità. Misterman è uno spettacolo ad alta intensità. Non sarà perfetto, ma mette lo spettatore in allerta, lo tiene scomodo sulla sedia e gli rende difficile la scappatoia di una facile morale.
Thomas Magill vive in un paesino della profonda provincia irlandese. Il padre manesco non c’è più ma continua a perseguitarlo dalla tomba, la madre iperapprensiva lo opprime, la piccola comunità rurale lo deride. Ma Thomas, lo sfigato del villaggio, ha un’arma per difendersi: la religione. È Dio che lo guida nell’opera di conversione del suo prossimo, è Dio che lo protegge e lo arma contro il mondo trasformandolo da vittima innocente in angelo vendicatore nell’arco di una giornata che corre verso la catastrofe. Ossessionato dal peccato che lo circonda e di cui prende nota registrando voci e conversazioni con la maniacale precisione di un Krapp, Thomas è l’innocuo insignificante che diventa mostro. Il testo di Enda Walsh, tra le voci meno accomodanti della drammaturgia contemporanea, azzera la linearità del racconto: le scene si ripetono come un incubo che non rispetta la scansione temporale ma si avvita su se stesso procedendo per scarti come la follia del suo protagonista. Che parla la lingua nervosa e strisciante di una paranoia camuffata da normalità. Un testo sapientemente disturbante.
La regia di Luca Ricci è prima di tutto sonora. Le voci registrate con cui Thomas dialoga nel suo delirio, i latrati dei cani, i rumori sinistri che emergono dal brusio del quotidiano disegnano lo spazio scuro di una mente che si distorce nella presunzione della propria innocenza. Un tavolo, una sedia rabberciata, un mangiacassette montato su una vecchia antenna, un completo da uomo che pende dall’alto come il fantasma del padre sono gli unici oggetti di una scena vuota dove seminare gli indizi di una tragedia che incombe.
Il testo di Walsh, originariamente previsto per più attori e poi riscritto come monologo, prevede che il protagonista dia voce anche agli altri personaggi, figurine meschine di una provincia arretrata e insieme doppi schizofrenici partoriti dalla mente di Thomas. Gilerino da nerd e giacchetta proletaria, Alessandro Roja (il Dandi di Romanzo criminale con legittima voglia di fare teatro)si mette a servizio di una parte complessa con indubbia generosità. Fa sul serio e si vede. Risultando credibile nella febbrile trasfigurazione da bravo ragazzo a folle omicida, nutrito di un malessere che dalla scena arriva dritto alla platea.
www.teatro.persinsala.it, 1 novembre 2013
Alla Cavallerizza del Teatro Litta di Milano un monologo straziante del drammaturgo irlandese Enda Walsh. Per entrare nella solitudine di un uomo qualunque.
Enda Walsh, che è nato nel 1967 in Irlanda, è lo sceneggiatore di almeno due film che hanno avuto una certa eco: Disco Pigs, del 2001, su un’insana amicizia tra due adolescenti, e Hunger, del 2008, sullo sciopero della fame di Bobby Sands. Al Litta di Milano, il regista Luca Ricci mette in scena un suo aspro e breve monologo, Misterman, affidandolo all’eclettismo di Alessandro Roja. I contorni della storia sono indefiniti: probabilmente il protagonista, Thomas Magill, si è asserragliato in una cantina in attesa di suicidarsi. Prima di farlo rivive il suo patologico tentativo di “salvare” gli abitanti del suo villaggio e condurli sulla retta via cristiana. Con loro dialoga in via indiretta: ha registrato le loro voci, da quella della madre a quella della ragazza amata, che lui scambia per un angelo ma che (si intuisce) scatena in lui una violenza fatale; dal vicino ubriacone alla sensuale proprietaria della pasticceria; dal meccanico ingenuo alla signora a cui, in un eccesso di rabbia, uccide il cane. Thomas sembra, come dicono in paese, sulla via della santità. Anzi, a dirla tutta, sembra uno sciocco. In realtà nasconde dentro una frustrazione profonda che si trasforma in violenza e che deriva, in parte, dal fatto che, dopo la morte del padre e la chiusura del suo negozietto, lui e la madre sono caduti in povertà. Anziché reagire trovandosi un lavoro, Thomas si è messo in testa di essere un inviato del Signore. Il testo è molto irlandese, anche se la violenza di molti giovani fondamentalisti islamici ha significativi punti in comune con quella di Thomas. Però, più del testo, colpisce la capacità di Roja di incarnarsi nei vari personaggi e nel seguire i vaneggiamenti di Thomas. Sobria ed efficace la regia di Ricci. Anche il luogo, la Sala La Cavallerizza, si rivela ideale per la messa in scena e gli effetti sonori.
www.voceditalia.it, 31 ottobre 2013
C’è una sala di teatro, piccola e stretta, a due passi dal Duomo, che sembra una chiesa sconsacrata e invece è uno spazio di Palazzo Litta, oggi un palco ricavato da dove un tempo vi erano le scuderie.
Se nel breve ponte novembrino non siete salpati dai navigli e siete restati nella città meneghina, il consiglio del vostro recensore è quello, nel caso foste fortunati e fossero avanzati alcuni biglietti della sessantina di posti che il luogo concede, di fare un salto alla sala Cavallerizza Litta.
Qui fino a domenica 3, chiusi in questo congeniale spazio asfittico, dove il suono esce amplificato e distorto e quindi suggestivamente sacrale (lo spettacolo ha inizio con una scena buia tra suoni cupamente psichedelici) è possibile assistere a Misterman, dramma irlandese di Enda Walsh che Luca Ricci ha magistralmente diretto con due semplici (la semplicità che nasce dal genio) trovate.
Prima trovata: la scelta dell’attore sulle cui spalle è caricato il peso dell’intera vicenda di tale Thomas Magill, ossia Alessandro Roja, volto televisivo noto per aver interpretato il ruolo di Dandy nella serie “Romanzo criminale”.
Roja mi ha ricordato l’altrettanto sorprendente Fausto Russo Alesi in Natura morta in un fosso (monologo di qualche anno fa da testo dell’allora enfant prodige Fausto Paravidino) per l’intensità con cui è stato in grado di incarnare una decina di personaggi senza travestitismi, senza cambi di scena, soltanto grazie a minimi ma pregnanti gesti mimici, pochi spostamenti e variazioni di timbro vocalico.
La vicenda, dunque. Immaginate un “toccato” di villaggio, dove la parola toccato apre al primo senso, ossia quello derivato dalla biologia popolare, da quelle mele che troppo pesantemente cadute a terra ne sono rimaste tocche, appunto. Ma “toccato”, così è definito Thomas Magill dagli abitanti dell’indistinto villaggio (indistinto perché così la metafora di Walsh può avere connotati universali?), significa anche raggiunto, pervaso da Dio. Roja lavora sugli occhi e Thomas è un invasato che alterna sguardi innocenti, parole levigate da un intimo e idealità, e sguardi mistici, di un misticismo che è anticamera della follia e della tragedia.
Gli altri sono tutti. Uno e tutti, questa è la dialettica di Misterman. C’è un evidente, distruttivo contrasto tra la solitudine di Thomas e gli altri che sono poi il villaggio. Sembra la parabola di Frankenstein, del diverso che è costretto a serragliarsi in un oscuro scantinato prima di farla finita.
O forse il riferimento più prossimo è l’antologia di Spoon River, ma di segno rovesciato. Qui, in Misterman, non sono i singoli a parlare, o forse sarebbe meglio dire confessarsi, con una voce che nel testo di Edgar Lee Masters era liberatoria e innocente, come può esserla quella di chi, dantescamente, ha lasciato desideri e paure di questo mondo.
Gli spettatori, al contrario, sono gettati dentro il vortice dei pensieri e dell’unica voce presente, quella di Thomas, mentre gli altri, il villaggio, sono voci registrate, nastro magnetico, materialità ripetibile all’infinito nei gesti ossessivi e compulsivi con cui il protagonista morbosamente legato alla madre (e il dialogo con la voce registrata di lei rimanda alla tremenda costruzione post mortem di psycho), scandisce giornate e incontri invariabilmente identici.
O, come in un rinnovato Truman show, tutto fosse già predeterminato. E controllato. La parola “controllo” non a caso è associata all’attività del buon Dio, nelle invocazioni che aprono la scena. Così tutti i supposti peccati del villaggio, le “profanità” dell’ubriacone, le seduzioni improprie della pasticcera, la sporcizia in cui vive il figlio di una vicina sono segnate in modo instancabile e inquietante sul taccuino seriale di Thomas.
Dicevamo della sala Cavallerizza e degli effetti sonori che l’ambiente permette. Due scene come esempio. L’assordante abbaiare dei cani e la chiassosa sala borghesissima di paese dove il fanatico giustiziere proclama il suo odio e lancia le sue profetiche minacce verso il mondo. Ne deriva per lo spettatore, levata la fatidica quarta parete del teatro classico, l’inevitabile sofferenza di calarsi per qualche attimo nei panni del mostro.
Le trovate però, dicevamo, sono almeno due.
La seconda: una scena minimale con qualche registratore, un tavolo e un vestito appeso che Roja indossa nel finale. E’ il vestito del padre di Thomas, morto e dimenticato dal paese (e forse psicanaliticamente motore della vicenda) che per tutta la rappresentazione ha le fattezze di un fantasma (c’è dell’Amleto in Irlanda…) o di un impiccato. Quando l’eredità è passata di mano di padre in figlio, il dramma può precipitare verso la sua fine.
Donna Moderna, 31 ottobre 2013
Un uomo solo, tanti personaggi. I vicini di casa, il padre, i conoscenti, la mamma (soprattutto la mamma), evocati da un registratore, con cui Thomas-Misterman, il protagonista, dialoga come in un incubo che si ripete all’infinito Sono gli ingredienti che un magistrale Alessandro Roja (per tutte, l’indimenticato Dandi della serie televisiva Romanzo Criminale), con la regia di Luca Ricci, mescola nello spettacolo Misterman, da un testo dell’irlandese Enda Walsh. Uno spettacolo intenso, coraggioso, che mette il pubblico di fronte al labile confine che può separare la ricerca della virtù dall’ossessione. «Per me un percorso pieno di errori, imperfetto, sporco» spiega l’attore in camerino, subito dopo lo spettacolo. «Perché Thomas non mette in scena le sue ossessioni, ma le rivive, ogni sera, in modo differente, come una sequenza di incontri… fino al drammatico finale».
La Stampa, 24 ottobre 2013
Se avete in mente il Dandi della serie televisiva “Romanzo Criminale”, dimenticatelo. Alessandro Roja questa volta ci porta dentro una giornata qualunque di un paesino irlandese qualunque. È la prima esperienza da monologo nella carriera del trentacinquenne attore romano, ed è la prima traduzione italiana (la firma Lucia Franchi, la regia è di Luca Ricci, entrambi fondatori della compagnia CapoTrave) di un testo dell’irlandese Enda Walsh, drammaturgo di livello con ripetuti sconfinamenti nella scrittura cinematografica, su tutti “Hunger” di Steve McQueen. “Misterman” – il testo originale è del ’99, applaudito e premiato in Gran Bretagna e Stati Uniti – racconta i pensieri, le ossessioni e le manie di Thomas Magill, ragazzo apparentemente innocuo, ubbidiente, inoffensivo. Oppresso da una madre morbosa e inseguito dai ricordi del padre scomparso, chiuso in se stesso e deriso dal resto della comunità. Thomas però, di questa comunità, vuole diventare il salvatore. In che modo? Con la fede in Dio, pensa, e con l’illusione di essere stato scelto per redimere il suo paesino dal vizio e dal peccato. Ma è un gioco tra bene e male che ha in mente solo lui, regole comprese. E guai se qualcuno gli fa capire di non essere del tutto d’accordo. Rendere tutto questo in forma di monologo non è una prova per niente semplice: Roja la supera brillantemente, prendendo per mano chi guarda e portandolo su e giù per i tortuosi percorsi mentali del suo Misterman. A volte interagendo con immaginarie, ed efficaci, voci registrate; altre volte – e sono autentici pezzi di bravura – interpretando da solo i vari personaggi: si passa dalla vecchietta sconsolata al bullo del paese, dal custode alla voce del padre. Tutto con la giusta tensione e con qualche tocco di umorismo qua e là a stemperare la sottile inquietudine di questo personaggio malato. Un “monologo schizofrenico”, come lo ha definito a fine serata lo stesso Roja. Violento e tenero insieme, scopertamente simbolico e aperto a mille interpretazioni.
www.recensito.net, 23 ottobre 2013
Ci sono spettacoli che lasciano il segno, un’impronta in rilievo che porti via dopo che le luci si accendono e torni verso casa; questo succede a chi assiste all’intenso spettacolo “Misterman”, in scena a Milano al Teatro Litta fino al 3 novembre, dove dal palco si sprigiona una tensione emotiva palpabile e avvolgente.
Il testo crudo, diretto, tagliente e molto attuale di Enda Walsh, autore irlandese, uno dei migliori drammaturghi contemporanei, arriva con intensità al pubblico attraverso la straordinaria interpretazione di Alessandro Roja, attore romano, che aveva già dimostrato di sapersi mettere in gioco affrontando ruoli sempre diversi, ma qui veramente lascia senza parole. Guidato dalla sapiente regia di Luca Ricci riesce a entrare nel mondo del protagonista Thomas Magill e a farlo vivere in scena, senza aver paura di arrivare in fondo, nella profondità dell’animo attraverso percorsi invisibili, in quell’oscurità dove si celano il bene e il male, un luogo che ciascuno vorrebbe nascondere ma che esiste. Un giorno catastrofico per Thomas Magill, un giorno nel quale deve fare i conti con la sua comunità, che ricorda molto la “Dogville” di Lars Von Triers, quel mondo popolato da anime oscure, alla ricerca di una serenità apparente, di una bontà superficiale; il protagonista in apparenza vittima, mostrerà pian piano la sua natura in un viaggio che svelerà terribili verità. Thomas si circonda di voci e con quelle dialoga creando un mondo parallelo dove può fare e dire ciò che vuole; si trasforma in una decina di personaggi del suo villaggio, imitandoli e dialogando con loro, arrivando a compiere gesti di incredibile violenza, giustificandoli con la fede e l’amore in Dio, unendo follia e innocenza in un binomio esplosivo. Alessandro Roja fa vivere in scena uno straordinario Thomas Magill; riesce a raccontare con straordinaria bravura un uomo che vive in un mondo solo suo ma che crede reale, costruendo muri di parole e idee e animandolo di personaggi. Roja riesce a mantenere alta la tensione emotiva, arrivando a picchi di intensità come nella scena del temporale dove la sua voce ci trascina in un baratro di oscurità. La scenografia, firmata da Katia Titolo, è composta da pochi ma essenziali elementi che accolgono Thomas e lo sostengono per tutta la narrazione; la regia di Luca Ricci fa emergere l’intensa interpretazione di Alessandro Roja. Le voci del villaggio, registrate e riascoltate attraverso dei registratori, echeggiano nella stanza di Thomas e soprattutto nella sua mente spingendolo in un mondo fatto di precise ritualità; l’innocenza apparente di un uomo diventa follia e vendetta e pone lo spettatore in attesa degli eventi. La scena è intrisa delle oscure atmosfere che si respirano intorno al protagonista (grazie anche a un sapiente disegno luci), che avvolgono Thomas e raccontano una latente inquietudine.
La traduzione del testo è di Lucia Franchi; le voci off sono di Daria Deflorian, Irene Splendorini, Veronica Cruciani, Giordano De Plano, Andrea Di Casa, Federica Festa, Lucia Franchi, Francesco Montanari, Alessandro Riceci. Le musiche originali e gli effetti sonori sono di Antonello Lanteri.
“Misterman” è uno spettacolo coraggioso, inquietante ma necessario, da non perdere.
www.dramma.it, 24 maggio 2013
Prima metà di maggio movimentata per i ragazzi della compagnia CapoTrave, guidata artisticamente da Luca Ricci, fautrice dell’originale festival Kilowatt (Premio speciale Ubu nel 2010). In primis, sabato 3, è stata al centro della presentazione pubblica del progetto di recupero e rilancio dell’ex chiesa e di parte dell’ex ospedale della Misercordia di Sansepolcro (…)
Al prossimo Kilowatt quindi, dal 20 al 27 luglio, dovremmo già vedere parzialmente in funzione tale rinnovato spazio (…) Alla stessa rassegna, dovremmo anche assistere allo spettacolo vincitore del bando Ne(x)twork (…) Sennonché, giusto la settimana scorsa, s’è consumata una decisa contestazione del verdetto da parte di un paio (almeno) di compagnie partecipanti, le quali hanno sollevato aspri rilievi sulla validità dell’ammissione al bando del progetto avanzato dal collettivo vincitore. (…) l’accavallarsi nel corso dei giorni delle news e della cronaca agra di tale vicenda teatrale “ai tempi della crisi” ha preso il sopravvento, scavalcandomi. In verità mi premeva, piuttosto, cogliere il destro dell’attualità per giungere a trattare di un’operazione d’altro tipo della compagnia CapoTrave: mi riferisco alla messinscena diretta da Luca Ricci del frastagliato monologo dell’irlandese Enda Walsh, intitolato MISTERMAN, che ho visto al Campo Teatrale di Milano in una delle sue ultime recite della presente stagione di prosa. Lo spettacolo tornerà nel capoluogo lombardo il prossimo novembre al Teatro Litta e, a chi se l’è fatto sfuggire, consiglio di recuperarlo per poterne apprezzare la complessa e striata caratura testuale. Una drammaturgia di flussi discorsivi e onirici trip (per niente desueta e sterilmente criptica, come ha scritto qualcuno) che l’abile regia fa rifluire in scena entro un sottile addensamento d’intrecciati suoni e luminismi tra il pulviscolare e il pastoso.
A questi fa da camera di compressione un rarefatto dedalo di allusivi punti spaziali, denotati da un’essenzialità d’arredi e oggetti a cui ancorare con immediatezza la recitazione a più voci e personaggi di Alessandro Roja. Il quale fa rivivere i reiterati incontri, colloqui e percorsi del trentatreenne Thomas fra la gente del suo piccolo universo quotidiano, verso cui serba un odio sostanziale al di là degli edificanti propositi di religioso ecumenismo con cui la avvicina. Datate registrazioni di voci e brani off, rapprese in mangianastri variamente dislocati, irretiscono il protagonista tra misteriosi segmenti audio di episodi passati e conversazioni domestiche con la madre distante e raggelata nella dizione di Daria Deflorian; mentre, appeso come un crocefisso, l’abito issato del padre defunto richiama alla sua memoria lucori di maggiore calore e vicinanza. Nell’attore solitario in scena si condensa tale interiorità franta e spersa, lungo un inanellarsi di dialoghi dove egli si sdoppia assumendo atteggiamenti e vocalità dei vari soggetti incontrati dal personaggio durante la sua giornaliera via crucis. Si dà così incisiva figurazione a un isolamento, a un solipsismo echeggiato dalle assenze che aleggiano sulle sparute sedie vuote poste nei dintorni: segni altresì di una latitanza di ascolto e di partecipe presenza da parte degli altri nei riguardi del pariah, dell’oggetto non identificato di turno. C’è d’altronde della pazzoide insania, senza meno, in Thomas: aggressivo visionario, soldato della fede, “Misterman” della morale religiosa e spirituale volta alla redenzione palingenetica degli individui. Tuttavia “gli altri” – quell’“inferno” di cui Sartre scrisse in suo celebre testo – ovvero le persone che popolano oggi questo tempo e questo mondo indaffarato e ciarliero, rumoroso e stordente, sono in grado di comprendere con viva attenzione e minuziosa sensibilità la follia sospesa nelle fragilità di ognuno, le tensioni eccentriche di un’anima smarrita e le inquietudini di spirito? Interessa a qualcuno capire davvero cosa smuove il didentro di chi si ha intorno e domandarsi il perché sfaccettato di certe condotte aliene o meno dalla presunta normalità? E se sì, a quanti e in che modo, secondo quale umana e nobile profondità che induca ad andare incontro a chi si dibatte fra simili intrichi e dilemmi? È questo, io credo, un gorgo di complessità (e non di ambiguità) che l’opera scenica apre agli sguardi dello spettatore per trarlo a chiedersi in quale misura sia esso stesso, in quanto a sua volta singolo individuo parte di una comunità, comunque responsabile dell’alienazione altrui e della violenza che ne può derivare. Presagito dal rintronare di atmosferici chiaroscuri e sonorità rumoristiche e hard, il finale thriller schiude il grumo di efferatezza annidato nel giovane, stringendone l’itinerario infero in una morsa di buio affogata in ribollenti note molecolari. Se ne riemerge intrisi di un pensiero che scuote semplificazioni e categorie di comodo (erette a difesa delle proprie rassicuranti certezze e del pregiudizio facile), per farsi semmai ricettivi verso il Maelstrom d’irrequietezze racchiuse in ogni persona: vivi, cioè, di un’osservazione fine e di un ascolto vibrante dei moti problematici che possono travolgerla trascinando anche noi.
www.persinsala.it, 25 marzo 2013
Solo, all’interno di una scena scarna e polverosa, il giovane Thomas Magill, il protagonista di Misterman, suggestiva opera del drammaturgo irlandese Enda Walsh, dà avvio al suo delirante monologo sul Bene e sul Male, sull’importanza di vivere un’esistenza nel timore di Dio, giusta ai suoi occhi e senza sbavature.
Tradotto e messo in scena per la prima volta in Italia sul palco di Campo Teatrale, il dramma – diretto da Luca Ricci e interpretato da Alessandro Roja, il Dandi della serie tv “Romanzo Criminale” – offre una cruda e brutale proiezione dell’Io tormentato del protagonista, in costante bilico tra fede e follia.
Fin dall’inizio dell’opera, infatti, è palpabile la sottile linea che separa il fervore cristiano dalla cieca pazzia che convivono nel cuore di Thomas, la cui anima è scossa dal continuo protendersi verso Dio e, allo stesso tempo, dal sentirsi incatenata in una terra imbevuta di male e peccato. Il giovane decide allora di abbracciare la missione che crede gli sia stata affidata dal Cielo: redimere i suoi concittadini, spingendoli a essere migliori nel nome della fede, per costruire un mondo più giusto e più buono.
In un suggestivo gioco di voci registrate e trasmesse da vecchie radio – che danno sostanza agli abitanti del villaggio con cui il protagonista si confronta quotidianamente, in una ciclica ripetizione di gesti e suoni – la follia redentrice di Thomas prende via via corpo, alimentata dalle sue convinzioni sempre più salde, concretizzandosi in azioni che sfociano nella crudeltà più assoluta.
Uno scherzo atroce ai danni di un’anima già così fragile farà sprofondare definitivamente Thomas nell’abisso della follia, conducendo al tragico epilogo intuito fin dall’inizio.
Plauso al giovane e talentuoso Alessandro Roja, in grado di passare con grande abilità da un personaggio all’altro della pièce e capace di rendere perfettamente credibili i folli discorsi del protagonista, che via via si perde nei meandri della sua mente ormai sconvolta e priva di lucidità.
Fortemente suggestivi gli effetti sonori, la cui “crudezza” permette al pubblico di delineare con chiarezza nella propria mente le immagini di scene non viste, ma soltanto ascoltate, e di percepirne perfettamente la tensione drammatica e il portato emotivo.
www.stratagemmi.it, 30 marzo 2013
Misterman di Enda Walsh, diretto da Luca Ricci e presentato a Campo Teatrale, non è l’unico esempio di drammaturgia irlandese nel cartellone milanese di quest’anno: in Febbraio era stato presentato con successo al Teatro Menotti Occidente Solitario di Martin McDonagh, britannico di nascita ma irlandese di tradizione familiare e di elezione.
I due allestimenti – che ben poco hanno in comune, a parte la contingenza di portare sul palco noti interpreti del piccolo e grande schermo – condividono però le atmosfere cupe e senza speranza, ingrediente base della drammaturgia ‘irish’. Piccoli inferni quotidiani, tragedie che paiono sempre in bilico tra la cronaca e il simbolismo biblico, soffocanti interni domestici in costante relazione con una comunità opprimente che incombe dall’esterno: di questo parlano, pur in modo molto diverso, Walsh e McDonagh.
Il protagonista di Misterman è Thomas Magill (interpretato da Alessandro Roja), fervente cattolico un po’ santo e un po’ drop out della sua piccola comunità. Enda Walsh presenta un monologo di cui allo stesso tempo forza la struttura: alla voce di Magill si alternano quelle di diversi interlocutori della cittadina di Inishfree – sempre affidate alla parola metamorfica dell’io narrante – mentre un registratore riporta gli interventi dei vicini, di una ragazza, e soprattutto della madre (in questo caso la ben riconoscibile voce di Daria Deflorian, di innaturale e raggelante pacatezza).
Ed ecco che il contrasto tra l’affollamento di personaggi senza corpo e la solitudine di Magill diviene elemento disturbante, segno inequivocabile di una qualche instabilità, profezia certa di un finale tragico: lo spettatore si trova d’improvviso proiettato all’interno di una mente ondivaga, sommerso da voci fluttuanti tra immaginazione e realtà.
Luca Ricci fa emergere le risonanze del testo (affidandone la traduzione a Lucia Franchi, drammaturga della compagnia) e ne lascia affiorare tutta l’inquietudine: colloca l’azione in un ambiente spoglio, buio, solo di rado squarciato da luci pittoriche, che paiono sottolineare l’aspetto fortemente simbolico – quasi biblico – della vicenda. Anche i pochi oggetti presenti si caricano di senso: i registratori che sembrano moltiplicarsi e ingrandirsi sotto gli occhi degli spettatori, un vestito appeso come l’evocazione di un’impiccagione, un tavolo che metonimicamente rappresenta la casa.
Ad Alessandro Roja (meglio noto come il Dandi della serie Romanzo Criminale, e il volto misterioso e accattivante di Paolo in Magnifica presenza di Ozpetek) resta il difficile compito di sorreggere la struttura dell’intero spettacolo, dei suoi ritmi, dei crescendo. È una prova che sostiene in modo generoso ma discontinuo e che a tratti sembra sovrastarlo. A ricordarci quanto, anche per attori di provata esperienza, un monologo teatrale di questo calibro sia sempre impresa non priva di rischi.
www.corrieredellospettacolo.it, marzo 2013
Sempre più spesso si vedono in scena attori reggere da soli il peso di drammaturgie contemporanee sofferte e problematiche, fornendo prova della loro capacità nel rappresentare personaggi difficili e scomodi, che hanno a che fare con pazzie, solitudini, incapacità di affrontare la realtà, o immersi in essa fino al collo, o meglio, alla morte.
In un certo senso possiamo ringraziare la crisi se il teatro si è quasi ridotto al minimo indispensabile, riportando i testi alla loro essenzialità e sostanza, dando la possibilità agli attori di offrirci il meglio di se stessi, su palchi quasi privi di scenografia. Insomma la lezione di Grotowski è sempre valida e attuale.
È quello che succede in Misterman, testo del drammaturgo irlandese Enda Walsh che aveva visto il debutto nel 1999, e che prevede sulla scena un solo attore, ma dalle molte personalità, un caso clinico interessante, specialmente perché tra tutte c’è anche quella di un angelo sceso sulla terra per portare moralità, pace e la parola di Dio.
Sul palco pochi elementi di una specie di laboratorio da inventore pazzo, la ruggine regna sovrana, la polvere pure, tape recorder da ogni parte da cui sentiamo le voci che Thomas ha registrato. Sono quelle dei suoi vicini di casa, abitanti del villaggio immaginario di Inishfree.
Il ragazzo si aggira tra di loro un po’ come “lo scemo del villaggio”, e allora ci viene in mente il protagonista di Ordet, lo stupendo film di Dreyer o quello di Beckett “Krapp’s last tape”. Forse troppo? Forse una speranza…
O semplicemente quegli insopportabili preacher che vanno per la strada maledicendo a destra e a manca, in nome di un Dio punitivo. Insomma la follia è tutto e anche il suo contrario.
Thomas dialoga con tutti per captarne i lati oscuri, sporchi, nascosti e far pulizia tra questi personaggi a lui ostili, che si divertono a prenderlo in giro, perché lui è diverso, nella sua semplicità e innocenza ma anche nella testarda ostinazione a voler predicare il bene, diffondere la musica di Dio, lui “unico gatto in un paese di cani”.
La madre è assente presente, amorevole e servizievole, il padre sta al cimitero, ma il suo vestito è appeso da un lato, come a indicare che potrebbe tornare a indossarlo. Ma sarà Thomas a infilarselo per andare sotto la poggia, come un battesimo purificatore.
Eppure Thomas non è sempre l’angelo che ci fa credere. Quando per esempio prende a calci dei cani arrabbiati che forse nella sua mente rappresentano il vicino ubriacone, la donna tentatrice, il bastardo di turno che si diverte a deriderlo per le sue idee. E allora sfoga la sua latente aggressività con una violenza inaudita, come se glielo avesse ordinato Dio. In fondo anche Gesù Cristo prese a calci i Farisei ,senza tanti complimenti.
E alla fine da bravo predicatore eccolo salire su un palco a forma di sedia gridando “Vi ho ascoltato quando nessuno vi ascoltava e voi ridevate di me. ORA ASCOLTATE ME!”.
Povero Thomas, che nessuno ascolta, destinato a portare sulle spalle quel registratore legato a un palo, come una croce, una penitenza per la sua arroganza mista a innocenza, di cui va tanto fiero.
Bravo Alessandro Roja che misurando sorrisi e aggressività, recita questo testo che è più una prova d’attore che di originalità e di chiarezza drammatica.
Forse è il nuovo corso dei drammaturghi di oggi che, perduti in un mondo che ha perso quasi tutto, portano sulle spalle la mancanza di risposte e speranze. Anche questo, in fondo, ha il suo fascino.
www.saltinaria.it, 15 settembre 2012
La settima edizione di Short Theatre trasmigra nella suggestiva cornice del Centro di Produzione Culturale La Pelanda, nel cuore di Testaccio, per offrire altre cinque serate all’insegna delle più interessanti scritture sceniche contemporanee e dei più innovativi linguaggi performativi. Si inizia con il fascino oscuro del secondo studio di “Misterman” proposto dalla compagnia Capotrave con protagonista Alessandro Roja.
Dopo la presentazione di un primo studio nell’ambito dell’undicesima edizione della rassegna Trend dedicata alle nuove frontiere della scena anglosassone, la Compagnia toscana Capotrave approda a Short Theatre con la seconda tappa di avvicinamento alla forma compiuta del lavoro di traduzione, rivisitazione e messa in scena del testo del drammaturgo irlandese Enda Walsh. Un atto unico in costante crescendo, sottile, cerebrale e grondante inquietudine, che affonda la propria virulenta analisi in un contesto rurale imbastardito dal grigiore della lotta quotidiana per la sopravvivenza, presentandocelo dal punto di vista estremizzato e maniacale di un’anima candida corrosa dallo scherno continuo degli atti di bullismo subiti durante un’adolescenza difficile e soprattutto da un’adesione cieca ed integralista al cattolicesimo più bigotto ed intransigente, tale da trasformarsi in livida ed ostinata ossessione.
Thomas Magill a trentatre anni vive ancora con la madre, amata sconfinatamente e curata con scrupolosa devozione; non è ancora sopito il dolore per la scomparsa del padre, di cui celebra il ricordo visitandone assiduamente la tomba e al quale ha l’abitudine di confessare accoratamente i suoi più reconditi pensieri e frustrazioni. La realtà che lo circonda, il villaggio di Inishfree immerso nel profondo della campagna ibernica e i suoi gretti ed incolti abitanti lo disgustano irrimediabilmente. Il suo unico e più autentico desiderio sarebbe quello di raggiungere il paradiso ed essere accolto nella rasserenante grazia del contatto col divino; nel frattempo, con l’intento di meritare questa ambita ricompensa, la sua fede esasperata lo induce ad auto-attribuirsi un ruolo di moralizzatore ed inflessibile castigatore dei peccati altrui, appuntati con certosina dovizia di particolari su di un taccuino: Timmy O’Leary – sporcizia (si era comportato indegnamente con la madre disseminando biancheria sudicia in giro per la casa), Dwain Flynn – profanità (ubriaco, volgare e violento, lo aveva insultato e schiaffeggiato per strada), signora Cleary – indecenza (la proprietaria del negozio di dolciumi aveva tentato di concupirlo durante un giro di valzer particolarmente lascivo), queste sono solamente alcune delle annotazioni di una giornata come infinite altre. Si comprenderà ben presto che un delirante percorso a tutta velocità verso la tragedia è dolorosamente e irreparabilmente innescato ed il luttuoso e sanguinoso epilogo, suggerito in realtà da indizi neanche troppo celati lungo l’intero corso della narrazione, si abbatterà sul modesto villaggio rurale e sulla semplice e misera esistenza del protagonista senza concedere appello né ritorno.
Estremamente semplice l’allestimento scenografico curato da Katia Titolo: un modesto tavolo di legno dislocato al centro del palcoscenico ed un abito elegante appeso al soffitto sulla destra, il tutto immerso in una penombra che sembra riecheggiare la confusione allucinata che appanna la capacità di giudizio di Thomas. La direzione registica di Luca Ricci si rivela asciutta, efficace e sostanzialmente aderente al testo originale, qui presentato nell’incisiva ed intensa traduzione di Lucia Franchi. Il magmatico monologo richiede all’interprete calibrata energia emotiva, solida presenza scenica e una non comune capacità introspettiva finalizzata ad indagare e tradurre in azione performativa i più enigmatici recessi di un animo atrocemente tormentato; nella fattispecie questo travolgente flusso di coscienza trova un singolare mezzo espressivo nel dialogo instaurato dal giovane antieroe con delle voci morbosamente registrate su nastri – evidente il riferimento al beckettiano Ultimo nastro di Krapp -, in cui infondono carisma interpretativo e notevole realismo numerosi attori tra cui spicca una superba Daria Deflorian, capace di plasmare con incredibile forza espressiva il personaggio di una madre decisamente sopra le righe, eppure vicina con sincero e disarmante affetto allo spirito angosciato del figlio, forse l’unico, troppo debole baluardo verso l’estrema deriva della sua mente.
Convincente e densa di entusiasmo la prova recitativa di Alessandro Roja (familiare alle platee televisive per la sua partecipazione alla serie “Romanzo criminale” di Stefano Sollima nel ruolo del Dandi e di recente anche al cinema in “Magnifica presenza” di Ferzan Ozpetek, “Diaz – Don’t Clean Up This Blood” di Daniele Vicari, e come protagonista in “I più grandi di tutti” di Carlo Virzì). Roja si insinua con vibrante capacità mimetica tra le pieghe più nascoste ed inconfessabili del personaggio, dall’immacolata infanzia insozzata dall’insensibile e gratuita cattiveria del mondo circostante (“essere l’unico gattino in un paese di cani è una maledizione terribile”) alla furia omicida di un cieco vendicatore; il giovane attore romano si muove con sicurezza tra registri interpretativi diametralmente opposti e cattura l’attenzione del pubblico sin dall’ingresso in sala, rannicchiato in lacrime nell’oscurità del proscenio, promessa di un viaggio sconvolto e tragico che sarà ineluttabilmente mantenuta dal testo livido e tagliente di Enda Walsh. Il progressivo sprofondare nell’incubo prende le mosse da una giornata come innumerevoli altre con i piccoli rituali del quotidiano, le preghiere innalzate all’angelo del bene affinchè redima i peccatori che lo attorniano e mondi finalmente la loro anima, il desiderio di ascendere al paradiso mentre le gambe sembrano graniticamente “intrappolate nella terra del demonio”, l’insopportabile latrare di cani assordanti come spiriti malvagi che affollano la sua mente; e poi l’incontro con Edel, creatura dalle sembianze angeliche che pare donargli un barlume di estasi celestiale, ed un diluvio scrosciante sotto il quale Thomas si denuda quasi a volersi scrollare di dosso tutte le proprie colpe e una sofferenza ormai intollerabile (“prima espiamo i nostri peccati e prima il mondo si ritroverà con la pace e l’amore” sussurra dolentemente accorato). Particolarmente virulenta e sconvolgente la scena conclusiva in cui Thomas, con il volto completamente trasfigurato dalla follia e con l’intero paese che chiacchiera malignamente con caustico sarcasmo sulle sue ossessioni ed il suo finto angelo Edel, sprofonda definitivamente nel suo inferno di pazzia sulle note accelerate del classico folk irlandese “Toss the feathers” in quello che ritiene essere “l’ultimo giorno del demonio”, sino all’atroce fade out, che cancella ogni possibilità di speranza o redenzione, “tutto è così giusto perché nessuno sta ascoltando, nessuno sta ascoltando…”.
Un testo drammaturgico di notevole originalità ed impatto, indubbiamente significativo e di attualità in un mondo ancora tristemente martoriato dai fondamentalismi religiosi, portato in scena con convinzione ed eleganza dalla compagnia Capotrave e da Alessandro Roja; attendiamo pertanto con curiosità l’esito dell’ultimo stadio di evoluzione che condurrà alla forma performativa compiuta di questo già più che convincente progetto teatrale.
www.klpteatro.it, 7 aprile 2012
“È sottile il confine tra costanza e mania”: si potrebbe partire da qui per raccontare il primo studio di “Misterman” scritto da Enda Walsh, sceneggiatore di “Hunger” (film cult di Steve McQueen uscito nel 2008, e nelle sale italiane da fine aprile) e messo in scena dal regista Luca Ricci della compagnia CapoTrave.
La costanza di Thomas Magill, protagonista della vicenda, nel portar avanti un credo cattolico nonostante le avversioni e i cattivi costumi della società si trasforma in mania, in follia omicida.
Tutto avviene nell’arco di una giornata da dimenticare: l’innocenza diventerà furore, e la quiete di una tranquilla cittadina della campagna irlandese salterà progressivamente in aria. A dar voce a questo trip, che dura l’arco di un giorno, è l’attore Alessandro Roja, che solo in scena si accolla anche l’interpretazione di tutti gli altri personaggi del dramma.
Roja (rivelatosi al grande pubblico nel ruolo del Dandi nella serie “Romanzo criminale”) compie, sotto la guida del regista, un notevole lavoro sul personaggio, nonostante qualche evidente piccolo limite della mise en espace (luci e suoni sono da settare meglio).
Ciò che ammalia il pubblico del Teatro Belli, strapieno per la rassegna Trend, è come Roja si trasformi sul palco interpretando con intensa partecipazione questo personaggio un po’ nerd deriso da tutti, dalla madre troppo cullato e dal padre picchiato.
La costanza del lavoro sul personaggio di Roja diventa la mania che ha di scrivere e registrare tutto. Per questo Ricci invade la scena di stereo e registratori che ci ricordano il Last Tape di Krapp (e qui si gioca in casa!). L’alternanza di voce viva e registrata (si sono prestati alcuni attori tra cui citiamo Daria Deflorian, che interpreta una madre attaccata al figlio e svampita allo stesso tempo), unita alla versatilità di un attore che interpreta tutti i personaggi, creano le condizioni per la tragedia finale, che non sveleremo ma che potrete immaginare.
C’è di più: il gioco in scena con Roja che sfrutta le opportunità che Ricci gli offre (portando – ad esempio – un palo con un registratore su e giù per il palco come la croce del Cristo sul Golgota) diventa a un certo punto gioco metateatrale: l’attore ripete le battute, torna sui suoi passi, spiazza il pubblico che casca nella trappola pensando all’errore. Invece no, è solo un modo per sottolineare ancora come la giornata terribile di Thomas “Misterman” Magill sia un incubo che si ripete, e che ha già vissuto tante volte.
Un esperimento riuscito soprattutto per l’attualità sconcertante del testo, che viene enfatizzata nella messa in scena.
Attendiamo il debutto del lavoro finito.
La Repubblica, 1 aprile 2012
Quanto sono cattivi i drammaturghi anglosassoni di nuova generazione, tutti crudeltà, isolamento e un cattivo rapporto con se stessi come s’è visto a “Trend” la bella rassegna sulla nuova scena britannica, con cinque super autori, da Mike Bartlett a Chloe Moss, da Enda Walsh a David Harrower e Chris O’Connell in altrettante mise en espace o spettacoli di Lura Sicignano, Martino D’Amico, Luca Ricci, Silvio Peroni, Giampiero Rappa.
Alessandro Roja, il Dandi di Romanzo Criminale, al cinema con Diaz di Daniele Vicari, I più grandi di tutti di Carlo Virzì e Magnifica Presenza di Ozpetek, ha intepretato Misterman di Enda Walsh, uno studio (prodotto dalla compagnia CapoTrave), che è già abbastanza per dare l’idea di una tragedia oscura in un paese irlandese dove Thomas confonde realtà e immaginazione. La regia di Luca Ricci, efficace, ruota attorno a dei vecchi registratori (le voci degli altri abitanti) e Roja è bravo tra i diversi registri e personaggi, a partire da Thomas, compito e rigido, perso nei suoi labirinti invisibili dove il confine tra normalità e devianza è lì lì.
www.teatroecritica.net, 30 marzo 2012
Thomas Magill è un innocente. A trentatré anni continua a vivere con la madre di cui si prende premurosamente cura. Un amore profondo di matrice religiosa lo ispira scandendo meticolosamente ogni singolo momento della sua vita ad Inishfree, piccolo villaggio rurale dell’Irlanda d’oggi. Da fervido credente Thomas sente di dover adempiere a una missione: portare il bene all’interno della comunità che forma il piccolo paesino in cui vive. Il suo passato è sconosciuto, misterioso, quasi velato da una coltre di nubi bianche trafitte dal sole. Solo qualche ombra grigia racconta dei soprusi subiti da parte dei concittadini a causa della sua connaturata bontà, mentre una lapide, cui il ragazzo fa continuamente visita, ricorda la morte del padre. L’innocenza può diventare ossessione, può essere elemento conturbante, spaventoso, crudele, ancor di più nel momento in cui si lega alle radici di un credo religioso che totalizza l’esistenza divenendo motivo per punire e correggere ogni presunto male. La storia raccontata dal drammaturgo dublinese Enda Walsh in Misterman (appellativo con il quale ogni mattina un abitante di Inishfree chiama Thomas) è il dipinto crudo di uno spaccato di vita nella realtà rurale dell’Irlanda d’oggi, ma anche la fotografia – distante e obiettiva – di una follia che silenziosa cresce all’interno di mantra religiosi nascondendosi sotto a un’apparente ricerca di normalità.
Andata in scena per la prima volta nel 1999 e riscritta nel 2011 dallo stesso Walsh in forma di monologo, la pièce ha avuto grande risonanza mediatica grazie all’interpretazione di Cillian Murphy (in Italia lo ricordiamo ad esempio nei panni dell’adolescente en travesti nel film Breakfast on Pluto), aggiudicandosi nello stesso anno quattro nomination per l’Irish Times Theatre Awards di cui una proprio per il miglior attore protagonista.
Chiamata a partecipare all’undicesima edizione della rassegna Trend curata da Rodolfo di Gianmarco (ospitata dal Teatro Belli di Roma e dedicata alla nuova drammaturgia britannica) la compagnia Capotrave sceglie di tradurre, rileggere e mettere in scena il testo di Walsh. Gli occhi azzurri di Cillian Murphy sono qui sostituiti da quelli altrettanto limpidi del giovane Alessandro Roja, celebre per l’interpretazione del “Dandi” nel serial tv Romanzo Criminale. Rannicchiata in proscenio nella penombra, la sua figura accoglie gli spettatori entrati in sala manifestando immediatamente quella tensione tragica di cui l’intero spettacolo si compone. Quando per la prima volta Roja alza gli occhi verso il pubblico tutto è chiaro: in quel viso pulito, fragile, buono si nasconde una pulsione di morte e la sottilissima immagine della follia.
In una scena completamente spoglia se non per un tavolo posizionato centralmente e un vestito da sera lasciato penzolare sul lato destro dello spazio, Thomas ripercorre un giorno della sua vita, metafora del racconto della sua intera esistenza. Il monologo, dal quale emerge la bravura del giovane attore (una delle maggiori forze della mise en espace di Capotrave), si risolve in realtà in un dialogo serrato con voci preregistrare su nastro magnetico. Thomas è un Krapp che attraverso le registrazioni rivive – senza dolore o rimpianto apparenti – i dialoghi avuti con le persone che ha incontrato durante il suo cammino: la madre (perfettamente interpretata dalla voce di Daria Deflorian), i vicini, le mamme degli amici, i vari coetanei e una ragazza dal volto angelico. Come nel Dogville di Lars Von Trier poche linee disegnate sul pavimento e i rumori “scenici” costruiscono la visione dell’ambiente in cui si svolge la narrazione, così nella messa in scena diretta da Luca Ricci (per lo più aderente al testo e alle indicazioni didascaliche fornite da Walsh), i suoni registrati costruiscono una scenografia immaginaria, un luogo mentale capace di essere al contempo concreto e tangibile, attraverso il suo riflesso negli occhi del protagonista. La convinzione maniacale di essere nel giusto e la schizofrenia ossessiva in cui tale posizione può condurre; il prezzo dell’innocenza o la sua oscura contropartita sono una sottile carica a molla pronta a esplodere in violenza. Non si tratta però del taciuto covare ben raccontato, al cinema, dagli adolescenti di Gus Von Sant, quanto piuttosto del ripetersi ossessivo di quelle motivazioni – esposte sin dal principio dello spettacolo – che conducono (o hanno condotto) alla folle esplosione: da un lato la poesia di una società consumata dal proprio stesso marciume, dall’altro un’anima macchiata di nero proprio a causa della propria pretesa di innocenza, della presunzione di essere “buona”.
Presentato come “Primo Studio” questo Misterman lascia penetrare perfettamente lo spettatore nel testo di Walsh (per l’occasione tradotto da Lucia Franchi), restituendone la tragicità, ma non rinunciando a piccole provocazioni ironiche o a una romanità – già connaturata all’attore scelto – che caratterizza sottilmente i caratteri e le voci dei personaggi, nonché l’ambiente in cui essi si muovono. Ostacolo per una fruizione fluida e continuativa dello spettacolo è ancora un montaggio incapace di mantenere il climax in crescendo del racconto e che invece sembra abbassare il livello di tensione proprio nel momento in cui il testo si fa portavoce di spietata violenza.
Allontanata l’attenzione dai piccoli difetti comuni alla fragilità di ogni prima tappa di lavoro, si rimane comunque col fiato sospeso ad aspettare che l’atto terribile, testimoniato da ogni elemento scenico ma sempre taciuto, venga infine rivelato.
www.paurankaradio.it, 28 marzo 2012
La rassegna teatrale TREND – nuove frontiere della scena britannica, a cura di Rodolfo di Giammarco, è giunta all’ XI edizione e si svolge dal 21 al 30 marzo al Teatro Belli di Roma.
Dopo A slow air di David Harrower, Cock di Mike Bartlett, Questa immensa notte di Chloe Moss è in scena il 27 e 28 marzo Misterman di Enda Walsh, seguito il 29 e 30 da Hymns di Chris O’Connell. Misterman è interpretato da Alessandro Roja (il “Dandi” in Romanzo criminale – la serie), con la mise en espace a cura di Luca Ricci, la traduzione di Lucia Franchi, la scena di Katia Titolo e le musiche originali di Antonello Lanteri.
Thomas Magill è un ragazzo premuroso e zelante, si prende cura della madre e visita la tomba del padre. Da fervido credente ha il sogno di guidare la sua cittadina verso il Bene e redimere gli altri per guadagnarsi la salvezza nell’al di là. Uno spettacolo “sul confine tra costanza e mania nella missione a base di altruismo” afferma di Giammarco. Una linea sottile e facilmente valicabile separa la ricerca di estrema bontà e rettitudine negli altri dalla follia omicida come mezzo per punire e correggere, fino alla distruzione stessa degli altri. La convinzione di un uomo di essere nel giusto e la schizofrenica ossessione a cui questo può condurre. Diversi registratori servono al personaggio per ricordare le persone che ha incontrato sul suo cammino e rivivere dialoghi presenti ormai solo nella sua mente. La bravura dell’attore rende al meglio l’anima del personaggio: un ambiguo intreccio di candida apparenza e sguardo maniacale.