In rumorscena.com del 3 marzo 2024
È un gran peccato che l’attività di (perfetti) organizzatori di Festival Kilowatt tra Sansepolcro e Cortona e di molte altre inventive attività culturali, tolga tempo a Lucia Franchi e Luca Ricci per dedicarsi al teatro in prima persona. Le volpi – pièce che ha già avuto una bella tournée nel 2023 e ora riprende il giro nel nuovo anno – ne è la dimostrazione. Scritto a quattro mani, è un testo calibrato e intelligente che esplora la linea d’ombra tra politica e vita privata. O meglio, quel territorio scivoloso dove si fa presto a scambiarsi favori ambigui, a barattare l’interesse pubblico con guadagni personali. Dove, invece di tenere la barra dritta, si vira verso l’amichettismo – ficcante definizione di Fulvio Abbate per indicare le relazioni pericolose che mescolano interessi che dovrebbero restare separati.
Tutto è, volutamente, sottotraccia ne Le volpi: non siamo nei corridoi del potere, ma in una casa di vacanze in provincia, in un sonnacchioso e ronzante pomeriggio di agosto. Qui, fra tende appena mosse da vento e una luce ambrata d’estate, si incontrano due notabili del luogo. La prima è una dirigente sanitaria con una carriera rispettabile, l’altro il sindaco, e fra i due la figlia della dirigente, un curriculum d’eccellenza all’estero e zero tituli in patria. Apparentemente sembra un’innocente reunion fra due vecchi amici d’infanzia, un tè, biscotti artigianali e chiacchiere in libertà. Ma la conversazione inizia presto a deviare con insistenza su patteggiamenti e favori incrociati. Sotto le pressioni della figlia (Luisa Merloni, appuntita e sfiancante nel pungolare la madre con ricatti e richieste d’aiuto) e quelle insidiose del sindaco (Giorgio Colangeli, una copia e una stampa con la volpe di Pinocchio), la dirigente (Antonella Attili, abilissima nel modulare il piano in discesa della coscienza) finisce per cedere, ma forse era già pronta a farlo. È proprio qui, in questo appannamento dei confini, nell’indefinita posizione dei personaggi che si regola la regia di Luca Ricci. Sono le sfumature, i mezzi toni, i non detti che fanno dell’umano una volpe. Anzi, le volpi.
CapoTrave – la compagnia dei due autori – riconferma così la sua vocazione di impegno sociale che non rinuncia all’alta “sartoria” del fare teatro e a un solido cast. Merce sempre più rara sulle nostre scene.
LE VOLPI
“Secondo gli esperti, questo successo (il moltiplicarsi delle volpi al punto da non poterne indicare il numero) è dovuto soprattutto alla straordinaria capacità della volpe di sfruttare ogni tipo di risorsa e ogni tipo di ambiente, anche molto antropizzato” (Marco Granata, “Uomini e volpi, quasi amici”): perfetto dunque il titolo scelto, “Le volpi”, da Lucia (Franchi) e Luca (Ricci) di CapoTrave per lo spettacolo che svela, in modo sciolto, realistico e sintetico, con un dialogato ben costruito, anche i molteplici “sottotesti”, pensieri e stati d’animo, che conducono a quella adattabilità all’ambiente (sociale? politico?) che risponde felicemente (forse), al di là di ogni riflessione/ ostacolo etico, ai singoli interessi individuali nella parvenza dell’interesse collettivo.
Un testo che si legge con infinito piacere, facendo anche nascere il sorriso, specie lì dove si colgono quei lievi slittamenti di posizione tra detto e non detto, bisogno di difendere la propria posizione (ideale?) scivolando verso altre direzioni, alla conquista infine di quei compromessi cercati, voluti, raggiunti. Un lieto fine? Sartre aveva intitolato un suo testo “L’ingranaggio”, lì dove l’ideologia, le scelte rivoluzionarie, erano divorate dalla necessità della Storia: impossibile la nazionalizzazione del petrolio, il sequestro dei beni degli stranieri. Non c’era scelta. O forse sì: ma a quale prezzo?
Anche con “Le volpi” si può riconoscere una condizione obbligata? Anche qui sembra di riconoscere una struttura a catenaccio perché si conservi in paese il reparto Maternità, perché possano essere fatti con cura i lavori alla casa al mare, perché anche in quel territorio si possa cogliere nel nuovo Museo del Contemporaneo un respiro internazionale, perché una giovane donna con figli possa tornare in Italia, nel luogo d’origine, e, portando benefici culturali alla sua terra, raggiungere l’equilibrio desiderato tra lavoro e famiglia.
Ad accompagnare il titolo, di fianco alla citazione di Ben Jonson (“Honour? Tut, a breath; there’s no such things in nature: a mere term invented to awe fooles”, da “Volpone”, l’onore solo un respiro, una parola inventata per stupire gli sciocchi: è ben altro a muovere il mondo) si trova quella di Leonardo Sciascia, “I grandi guadagni fanno scomparire i grandi principi e i piccoli fanno scomparire i piccoli fantasmi”, da “Todo Modo”.
Senza seguire lo spettacolo di CapoTrave, si fossero conosciuti solo gli esiti di quegli accordi, chi avrebbe potuto immaginare quel gioco a tre? Sì, probabilmente non sarebbero mancati dei pettegolezzi, vaghe ipotesi e poco più… Molto bravi gli interpreti Antonella Attili, Giorgio Colangeli e Luisa Merloni: si avverte il senso delle pause, questo naturale/ funzionale uscire/ entrare dell’uno o dell’altro per permettere anche confronti a due tra il sindaco, la madre, (funzionaria di alto grado nella gestione della sanità) e la figlia, una sorta di coreografia dialogica ben congegnata preparando caffè, mangiando biscotti vegani.
A creare momenti di sospensione, di lato, al microfono, passaggi di straniamento, ci sono alcuni pensieri “a parte”, subito significativo quello dell’avvio, come se fosse tutto un ricordo, qualcosa di già avvenuto a cui ripensare: quando era iniziato tutto quello? Non c’era stato un momento preciso, lei almeno non se n’era accorta… Già: tutto era accaduto in modo sereno, tranquillo, appena ogni tanto qualche beve inizio di contrasto, facilmente riassorbito, come in famiglia quando nessuno vuole far nascere litigi, lì, in quella sorta di salottino, un soggiorno con tavolino e qualche sedia.
C’è tuttavia un’urgenza: bisogna fare al più presto una telefonata. Perché è estate e il giorno dopo si parte per il mare. Ma come mai la figlia non vuole andarsene?, pure è quanto si preferirebbe: deve svolgersi un dialogo di lavoro tra due persone che hanno degli obblighi nei confronti della comunità, in quel mondo di provincia, che tale si rivela sotto molti aspetti, anche nel fare i nomi di chi comunque non è possibile mettere da parte.
Le battute sono brevi, buono il ritmo, i toni confidenziali, si parla di orari per la partenza, della ricetta dei biscotti, del mercatino al mare… Anche se si colgono qua e là delle tensioni: la madre per esempio teme un poco il carattere della figlia, “a volte sei ruvida…”. E’ consapevole che quello sarebbe stato un incontro “politico” e non vuole che la figlia sappia, veda, giudichi, intervenga “ruvidamente”? Pure sa essere anche “amabile”!
Molto interessanti quei frammenti di discorso sul rapporto tra amatoriali e professionisti per il Museo del Contemporaneo da aprire in un palazzo appena restaurato, così come per il bisogno di conciliare realtà locale e visibilità internazionale. “Io sono la più adatta a dirigere quel Museo”: la figlia lo dice esplicitamente. Sembra non abbia nessuna voglia di tornare a Rotterdam. Parla di trasparenza, riconoscimento dei meriti. Ci vorrebbe un bando?! A questo si arriverà? Ma non si vuole dire di più: perché c’è anche una sorta di suspense in questo gioco dell’adattabilità volpina…Un ottimo testo, un’eccellente recitazione. E, malgrado non se ne desiderino più da tempo, potrebbe starci bene anche un bel dibattito finale…
Lun – Ven : 9:30 – 18:30